Il partito degli onesti: un mito intramontabile
di Claudio Romiti
Ospite
dell’ultima puntata del talk-show “Dimartedì”, condotto da Giovanni Floris, il
grillino Alessandro Di Battista ha esposto con la sua tipica enfasi l’eterna
illusione del cosiddetto partito degli onesti. Una illusione, a mio modesto
parere, che fin dai tempi oscuri di Tangentopoli tiene in bilico l’opinione di
tanti confusi cittadini, i quali oscillano tra l’astensione, il voto utile o
l’appoggio ad una forza simil-giacobina qual è attualmente il Movimento Cinque
Stelle.
Ora, al di là delle differenze di facciata, la linea dell’onestà portata avanti
dai seguaci di Beppe Grillo è sempre la stessa dai tempi di Platone. Una linea
che, tradotta in un linguaggio adatto a tutti palati, recita più o meno così:
l’Italia è un Paese straordinario e ricco, ma ha la sfortuna di essere governato
da una classe politica di ladri (a questo punto provenienti da qualche lontano
pianeta) e, dunque, incapace di venire incontro ai bisogni di un popolo
assolutamente retto e virtuoso. In tal modo la politica corrotta, anziché
redistribuire in modo equo allo stesso popolo le immense risorse di cui dispone,
tiene per sé e per i propri amici buona parte di codesta presunta torta.
Tuttavia, come ha dichiarato Di Battista a Floris, sostituendo in blocco la
medesima classe politica con una schiatta di integerrimi e incontaminati
servitori delle masse, così come dichiarano di essere i grillini, si avrebbe una
rigenerazione completa del sistema, rendendo tutti più prosperi e felici. Ed è
proprio sotto quest’ottica che s’inquadra perfettamente l’idea del reddito di
cittadinanza, ritenuto dai suoi proponenti come realizzabile all’interno di un
regime orientato all’incorruttibilità. Ora, in primis occorre sottolineare che
questa trita impostazione, tutta basata su una purezza autocertificata dei suoi
artefici, non si può ascrivere all’antipolitica in senso sostanziale, in quanto
essa presuppone non una riduzione dell’intervento della sfera
politico-burocratica nella società, bensì una mera sostituzione degli
amministratori pubblici, senza però metterne in discussione le competenze. Ciò
corrisponde allo stesso modello che sta portando avanti con un linguaggio molto
meno radicale - e quindi assai più rassicurante in una fase di relativa stasi
economica - il premier Matteo Renzi: il paradigma del governo migliore. Tant’è
che lo stesso Presidente del Consiglio, onde parare le botte degli scandali
sempre in divenire, ha creato una sorta di moderno Robespierre nella figura di
Raffaele Cantone, magistrato in aspettativa trasformato dal volpino di Firenze
in un supercommissario per tutte le stagioni.
Ma sia la scaltra intransigenza in pantofole del renzismo e sia quella più
urlata e scomposta dei forcaioli a Cinque Stelle hanno in comune un errore di
fondo in merito al fenomeno della diffusa corruzione. Essa, così come costoro
tendono a far accreditare, non è affatto la causa prima che ostacola la felicità
del popolo, impedendo alla manna di cadere dal cielo. La corruzione in realtà
rappresenta, al netto delle caratteristiche etiche di una nazione, l’effetto
collaterale di un eccessivo intervento pubblico. Un grave e inevitabile effetto
collaterale che si potrà cominciare ad alleviare solo ed esclusivamente
adottando finalmente una linea di governo liberale, tendente a ridurre l’abnorme
livello di intermediazione che vede lo Stato in senso lato spendere oltre 830
miliardi di euro all’anno.
Solo che, se l’opposizione è quella cosa nebulosa e dispersa che attualmente si
vede in circolazione, dovremmo aspettare almeno altre due generazioni prima di
risentir parlare di rivoluzione liberale. Poveri noi.
Pubblicato il 2 aprile 2015 su L'opinione |