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Leo Alati

La nuova élite al tavolo di Matteo

Ci sono almeno due prospettive per guardare a Matteo Renzi. La prima è quella della rapidità di decisione. Coloro che guardano da questo punto di vista al premier non lesinano gli applausi. Gli ultimi due anni e mezzo della vita politica di Renzi sono costellati di rapide imprese capaci di risonanza nazionale e internazionale, e ormai quasi nessuno si ricorda di quando Renzi “non c’era”, quando era solo presidente della Provincia di Firenze o sindaco della stessa città. Aedo della rottamazione, primarie perse contro Bersani, primarie vinte l’anno dopo, eletto segretario del partito con ampio margine, affossatore di Letta, presidente del Consiglio, a capo del semestre italiano della Commissione Europea, organizzatore del patto del Nazareno, stratega degli 80 euro in busta paga, vincitore delle elezioni europee con il più alto risultato di sempre per il suo partito, regista dell’operazione Mattarella al Colle, vincitore della battaglia per la riforma elettorale.

Forse è vero ciò che mi racconta un amico deputato, che Renzi sarebbe chiamato dai suoi più stretti collaboratori “il Cavallo”, intendendo con questo soprannome addossare al leader un carattere personale che lo vede perennemente al galoppo. “Una pila di energia” – secondo una metafora di altro genere. Non si sa dove abbia origine questa propensione alla corsa e al dispendio energetico: dove origini la sensazione di “tutto volere” che Renzi sprigiona così naturalmente e che le telecamere della tv trasferiscono ai telespettatori. Il narcisismo spiega molto, ma tutti i leader politici sono narcisisti e si piacciono moltissimo. Parecchi desiderano anche piacere agli altri e in molti cadono su questo desiderio perché – per voler piacere a tutti – si finisce con dire cose un po’ bianche e un po’ nere che non solo non attirano consensi, ma che finiscono per dare noia a tutti. Renzi è diverso dagli altri perché sembra infischiarsene olimpicamente di piacere a tutti: preferisce piacere molto a una parte ed è disposto a beccare il fischio dagli altri, basta che si tratti di una minoranza.

Di fronte all’abilità tattica da lui dimostrata in questi primi anni di esposizione alla politica nazionale si è creato un intero parterre di sostenitori sfegatati che di Renzi ammirano la volontà di potenza e la continua capacità di dettare l’agenda alla politica. Veramente Renzi non detta solo quella: è l’agenda dei media che pende dalle labbra del premier. Nemmeno nell’epoca aurea di Berlusconi si era riscontrato un interesse così morboso della stampa verso le dichiarazioni di un leader e un’acclamazione di fondo di questa portata. Erano probabilmente anni che i media (e una discreta parte degli italiani) cercavano uno che dicesse “Stai sereno”, “Non mi sposto di un centimetro”, “Metterò la fiducia anche sulla legge elettorale”. Senza cambiare idea, anzi rafforzandosi nel suo radicalismo tattico e dimostrando la volontà di andare fino in fondo.

Poi però c’è un altro modo di guardare a Renzi, ed è quello dei fatti. Aveva chiesto 100 giorni per rifare l’Italia, ne sono passati circa 400 e la situazione è questa: il tasso di disoccupazione più alto degli ultimi anni, gli 80 euro inghiottiti dalle spese di famiglia senza finire sui consumi, la più alta percentuale in Europa di giovani che non hanno né cercano un lavoro, i più bassi investimenti europei sulla scuola e l’università, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, una legge sul lavoro che è piaciuta enormemente alla Confindustria e agli imprenditori e ha fatto ribrezzo alla Fiom e ai lavoratori (sia precari che non), un semestre europeo a conduzione italiana di cui non si è accorto nessuno, alcune comparsate sulla scena internazionale, male parole continue sui sindacati e sulla minoranza interna del Pd, una finta abolizione delle Provincie che sta creando disagi di ogni tipo a istituzioni e lavoratori. Una notevole acquiescenza del governo italiano rispetto alle perduranti politiche di austerity della Commissione Europea, l’accettazione del no all’operazione Mare Nostrum rimpiazzata dalla slabbrata operazione Triton, sul cui rifinanziamento hanno giocato assai più le centinaia di migranti annegati nel Mediterraneo che la voce grossa dell’Italia. Infine, l’Italicum in approvazione in questi giorni.

Meglio o peggio che sia rispetto al Porcellum, si tratta di una legge temeraria, per le sovraesposizioni al rischio di vedere non tanto una maggioranza sempre più potente quanto addirittura una minoranza diventare maggioranza schiacciante grazie a un abnorme premio di maggioranza senza sensati contrappesi istituzionali. Ha ragione chi ha detto che se la proposta fosse venuta dalla destra tutto ciò che ancora si muove a sinistra, in Italia, sarebbe insorto. Invece no. Questa inazione oppositiva – o azione solo parziale – è senz’altro figlia del primo modo di intendere Renzi, quello dinamico, iper-veloce e decisionista. La pressione di questa prospettiva è forte, e ben assecondata da media mainstream che ripetono a ogni piè sospinto quanto sia bravo Renzi a comunicare, quanto sia adatto ai tempi e al loro spirito.

Proviamo a congiungere le due prospettive in una visione unitaria: se scelte politiche azzardate e post-democratiche non passano con la destra e passano con il renzismo è perché quest’ultimo, forte di un consenso derivato dalla marcescenza dei problemi dovuta alla vecchia classe politica, ha una visione modernista della realtà che identifica la rapidità e l’astuzia tattica come condizioni per una nuova concentrazione del potere. Il cambiamento è un’altra cosa: si articola con azioni coerenti di miglioramento per le parti sociali (per la sinistra: le classi popolari), non con perenni forzature da giocatore di poker. Mettendo il turbo a una legislazione che approva senza condizioni ogni “naturalità” del sistema economico-sociale dominante viene a maturazione una nuova classe politica perché ha fatto fuori il vecchio ceto politico, non perché porti avanti in qualche modo una visione di centro-sinistra.

Si stava meglio prima? Non lo so e non è una domanda sensata. Quando una situazione è insostenibile chi dice che vuole “cambiare l’Italia” accompagnato dalla propria giovane età e da un gruppo dirigente di fedelissimi pasdaran ha in mano un jolly potente. Per ora viene da pensare che quel jolly venga infilato in una combinazione strategica che ha come posta l’affermazione e la cristallizzazione di una nuova e spregiudicata élite del potere. Non esattamente quello di cui hanno bisogno gli italiani.

Articolo di Stefano Cristante pubblicato da Il Garantista il 4 maggio 2015

 

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