Soleri, il liberale che valse più di una lira
Ricorre
il settantesimo anniversario della morte dello statista piemontese, più volte
ministro e sindaco di Cuneo. Tentò di opporsi alla marcia su Roma e salvò la
moneta. Caduto nell'oblio persino nella sua amata provincia Granda
Saranno presto 70 anni dalla morte di Marcello Soleri, figura eminente del
liberalismo italiano, come rivela il secondo tomo del Dizionario del liberalismo
edito da Rubbettino. Eppure persino in Piemonte il nome di Soleri appare del
tutto ignorato. La stessa piccola via a lui intitolata a Torino, tra via
Lagrange e via Gobetti, tangente all’hotel “Principi di Piemonte”, sta a
dimostrare il poco interesse verso lo statista morto a Torino nel 1945, a pochi
mesi dalla Liberazione. Curai una nuova edizione nel 2013 delle sue Memorie che
Einaudi pubblicò nel 1949 ed erano divenute introvabili. Cercai di presentare il
libro, ma riuscii soltanto a promuovere una presentazione nella Sala Rossa del
Comune di Torino e alla Fondazione Einaudi a Roma. In Provincia di Cuneo la
presenza di piccoli personaggi locali che confondono la storiografia con le
scorribande pseudo-storiche, lo hanno di fatto impedito. C’è da augurarsi che il
Piemonte non voglia ignorare quest’anno questo personaggio storico di grande
rilievo di cui è bene rievocare la vita di statista e di patriota che non può
essere contenuta in poche battute.
Nato a Cuneo il 28 maggio 1882, avvocato, sindaco di Cuneo nel 1912-13, Marcello
Soleri fu deputato dal 1913 al 1928. Volontario nella Grande Guerra, ferito e
decorato di medaglia d’argento al Valor Militare, nominato sul campo capitano
degli Alpini per meriti di guerra, fu tra i pochi deputati a partire per il
fronte, pur essendo contrario all’ingresso dell’Italia in guerra, in quanto
seguace di Giolitti. Nell’immediato dopoguerra sottosegretario alla Marina,
commissario agli approvvigionamenti nel 1920-1921, ministro delle Finanze nel
1921-22 e ministro della Guerra nel 1922 durante i giorni della “marcia su
Roma”. Oppositore nettissimo del fascismo (aveva predisposto un decreto per
proclamare lo stato d’assedio della Capitale e fermare manu militari la presa
del potere da parte di Mussolini, che il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di
firmare), combatté nelle aule parlamentari il nascente regime, rifiutando
l’Aventino che finì di spianare la strada a Mussolini, malgrado il delitto
Matteotti avesse sfregiato la sua figura politica e morale.
Decaduto
da deputato nel 1928, tornò alla professione forense per vent’anni, mantenendo i
contatti con l’antifascismo, in particolare con quello liberale, a partire dalla
lunga frequentazione con Benedetto Croce che prediligeva il Piemonte per le sue
vacanze. A Pollone, dove il filosofo trascorreva l’estate, Soleri era uno degli
ospiti fissi, come dimostrano anche le fotografie un po’ narcisiste scattate da
Franco Antonicelli che, pur giovane, voleva apparire nel gruppo raccolto attorno
a Croce. Nel 1943, in un drammatico colloquio con il re Vittorio Emanuele III,
cercò di sollecitare il Sovrano a un’iniziativa politica che salvasse l’Italia
dalla tragedia della guerra perduta e da un regime ormai in sfacelo. Subito dopo
il 25 luglio di quello stesso anno si pose al servizio del Paese, anche se
dovette attendere la liberazione di Roma nel giugno del 1944 per entrare nel
governo presieduto da Ivanoe Bonomi nel delicatissimo dicastero del Tesoro che
mantenne fino alla sua morte immatura, avvenuta il 23 luglio 1945, quando la sua
politica stava salvando la lira, uscita distrutta dalla guerra, dai lunghi mesi
della Rsi, sostenuta dai tedeschi, e dalla stessa occupazione-liberazione delle
truppe Alleate. Morì a 62 anni, quando aveva appena ripreso un’attività politica
di grande rilievo dopo la parentesi ventennale del regime fascista con cui non
venne a nessun compromesso. La morte precoce stroncò una seconda volta la sua
carriera politica in modo irrimediabile.
Si parlava negli anni ’44-45 della classe dirigente prefascista, delle sue
responsabilità, dei suoi errori e delle sue debolezze nei confronti del fascismo
e si ritenne da parte di molti di privilegiare gli esponenti dell’antifascismo,
dell’esilio o della clandestinità, archiviando gli uomini che avevano governato
in precedenza. Lo stesso Soleri si sentiva «il più giovane tra i vecchi e il più
vecchio tra i giovani» in quanto la sua figura politica non poteva essere
accomunata sic et simpliciter con il prefascismo, anche se la sua iniziale
carriera politica avvenne all’ombra di Giovanni Giolitti di cui Soleri divenne
il braccio destro, trascinando lo stesso vecchio statista a non cadere nella
trappola dell’Aventino, ma a combattere l’ultima battaglia contro il fascismo
ormai regime nell’aula di Montecitorio.
Oltre
alla morte - proprio in un momento in cui avrebbe potuto dare un grande
contributo alla ricostruzione del Paese - uno dei motivi per cui la sua figura è
stata in qualche modo non adeguatamente considerata da parte della storiografia
anche di orientamento liberale, è stato il fatto di essere accomunata in modo
improvvido e storicamente sbagliato a Giolitti in quello che, non senza ragioni,
venne definito il «giolittismo»: una pagina importante della storia italiana del
Novecento, ma sicuramente non priva di errori e di disinvolture assai poco
democratiche, come dimostrò Gaetano Salvemini che giunse a definire “ministro
della malavita” l’uomo di Dronero. Un clamoroso errore si può cogliere, ad
esempio, in uno dei maggiori storici che si sia dedicato al liberalismo, Antonio
Cardini, quando giunge a scrivere di «destra di Bonomi e Soleri», ignorando a un
tempo le origini socialiste del primo e l’impegno sociale e liberaldemocratico
del secondo, aperto naturaliter a un rapporto con i socialisti riformisti.
Nessuno ha invece rimarcato come Soleri si sia rivelato costantemente estraneo a
quella spregiudicatezza ed anche a quel pragmatismo che dominarono l’età
giolittiana fustigata forse troppo severamente dal giovane Gobetti non senza
fondamento.
Questa è la vera chiave di lettura che, a 70 anni dalla morte, va adottata:
Soleri va distinto dal giolittisimo originario. Il tentativo di occultarlo,
considerandolo un giolittiano, è un grossolano errore storiografico, oltre che
un tentativo goffo di sminuirne la statura politica. Soleri rivelò sempre una
dirittura morale assoluta e coltivò una cultura di cui è manifestazione, ad
esempio, la sua attività di giornalista a cui venne offerta, in un momento
drammatico dell’Italia nel luglio 1943, la direzione del quotidiano La Stampa
che rifiutò a favore di Filippo Burzio. Dopo l’8 settembre parlò al popolo
torinese e agli operai davanti alla Cittadella, invitando alla resistenza contro
i tedeschi. Dopo la caduta di Mussolini il vero leader del liberalismo italiano
divenne naturaliter Marcello Soleri perché nessuno come lui aveva
l’autorevolezza politica e la coerenza morale di vent’anni di opposizione al
regime. Croce era ormai troppo anziano ed Einaudi era conosciuto come tecnico
dell’economia e non come uomo politico. In condizioni di tenere in mano il
testimone del liberalismo politico italiano c’era solo Marcello Soleri. Va detto
che molti liberali finirono di compromettersi con il regime fascista soprattutto
negli anni che Renzo De Felice definì del «consenso». Soleri ebbe la dignità di
tornare a fare l’avvocato – professione che aveva sospeso quand’era al governo,
anche in questo caso dimostrando uno stile di vita ineccepibile – senza con ciò
estraniarsi e chiudersi in un silenzio che avrebbe potuto significare tacito
consenso al regime imperante.
Dopo
il crollo del regime fascista, fu insieme a Croce tra gli autorevoli fondatori
del nuovo partito liberale, anche se la sua presenza non è stata storicamente
riconosciuta. L’oblìo nei confronti dello statista di Cuneo, più o meno
inconsapevole, durò nel corso degli anni perché lo stesso partito liberale, se
escludiamo qualche commemorazione di rito, quasi esclusivamente in Piemonte, non
seppe (o non volle) appropriarsi dell’insegnamento politico e morale del Nostro.
Un leader del partito liberale degli anni ’80 del secolo scorso, scrisse un bel
«ritratto di famiglia del Piemonte liberale», limitandosi a Cavour, Giolitti ed
Einaudi, trascurando Soleri, cui sarebbe spettato invece un posto di primissimo
piano. Tutta la storia di Soleri e della sua stessa famiglia (il padre fu
coraggiosamente socialista deamicisiano in momenti nei quali anche solo
dichiararsi tali poteva costare il carcere) rivela un’attenzione al problema
sociale e alla tutela del lavoro che resta una costante dell’opera di statista,
senza mai guardare a Gobetti che nelle Memorie non viene mai citato. Nel
contempo Soleri – osservò Manlio Brosio – «aveva il senso vivo della continuità
necessaria all’idea liberale; […] si considerava volentieri come una figura che
avesse legami col passato e con l’avvenire, e ne rappresentasse il
collegamento». Continua ancora Brosio: «Egli ben sapeva che il liberalismo è
tradizione storica ed è continuo rinnovamento, e che un partito che non si
riallacciasse alle tradizioni del Risorgimento e del primo Novecento, e non
cercasse di riallacciare i fili della continuità storica dopo il Ventennio
fascista, non avrebbe avuto ragione autonoma di esistere». Ancora Brosio
evidenzia «lo spirito profondamente democratico (di Soleri)» che «sentiva i
principii liberali, ma li arricchiva continuamente di contenuto economico e di
esigenze sociali».
Soleri muore prima che il nuovo Partito liberale, già drammaticamente
frammentato in correnti, si riveli una delusione che avrà la prima, nefasta
ricaduta sul numero di liberali eletti all’Assemblea Costituente il 2 giugno
1946. Il nuovo Partito liberale, se si eccettua una discreta presenza in
Piemonte (pensiamo alle figure di Bruno Villabruna, del più giovane Brosio e
dell’allora liberale Franco Antonicelli, presidente del Cln piemontese,
destinato a scelte molto lontane da quelle originarie, di Vittorio Badini
Confalonieri e di Gaetano Zini Lamberti), si radicò soprattutto nel Sud e
divenne una costellazione di vecchie clientele che impedirono di fatto la
creazione di un partito idoneo ad affrontare il dopoguerra. La guida morale del
partito da parte di Benedetto Croce, malgrado l’altissimo prestigio dell’uomo,
non fu sufficiente a creare una classe dirigente liberale idonea: pensiamo che i
più stretti collaboratori di Croce, da Guido de Ruggiero ad Adolfo Omodeo e
persino alcuni dei suoi strettissimi famigliari, presero la tessera del Partito
d’azione, anziché quella del partito presieduto dal filosofo. Chi avrebbe potuto
esercitare il ruolo di autentico leader liberale sarebbe stato unicamente Soleri,
se la sorte glielo avesse consentito. Luigi Einaudi, già senatore del Regno,
divenuto governatore della Banca d’Italia con Soleri ministro del Tesoro, per la
sua figura di studioso e di tecnico, più che di politico, poteva contribuire
alla diffusione dell’idea liberale con i suoi scritti, ma certamente mancava del
carisma politico necessario per guidare un partito che navigava nelle acque
difficili del dopo-guerra nelle quali emergevano, con la pretesa di essere
egemoni, i partiti di ispirazione marxista e di ispirazione cattolica.
Il
Fascismo prima e la Resistenza poi avevano creato una cesura tra passato e
presente che poteva apparire incolmabile, se è vero che Ferruccio Parri mise in
dubbio, nel suo giacobinismo azionista piuttosto esasperato, persino l’esistenza
della democrazia nell’età giolittiana che pure portò nel 1912 al suffragio
universale maschile: una conquista illusoriamente realizzata forse per ampliare
il consenso giolittiano con i modi sbrigativi dei famosi mazzieri più che per
ampliare la base dello Stato élitario del Risorgimento. Il liberalismo appariva
in parte compromesso con il fascismo, in parte legato a uomini che avevano fatto
il loro tempo come Vittorio Emanuele Orlando ed in parte espresso da
trenta-quarantenni, nessuno dei quali riuscì a compiere una carriera politica di
rilievo nell’età repubblicana. Benedetto Croce scrisse nel 1948 al biellese
Anton Dante Coda di questi quarantenni romani in modo molto severo: «In quel
gruppetto romano c’è molto spirito di prepotenza, e di vanità personale e scarsa
devozione al bene pubblico che richiede disciplina a sacrificio. Forse anche
nessuno di essi ha senso politico né vigore di mente. Sono od ostinati o
dilettanti…». Una volta lessi queste frasi ad Alda Croce a cui sono stato legato
da forte amicizia ed Alda mi disse che Croce, parlando di «devozione al bene
pubblico» spesso aveva in mente Soleri. È significativo che il Partito liberale,
dopo segreterie fragili o fortemente oggetto di divisioni come quella di Roberto
Lucifero, sia dovuto ricorrere ad un «esterno» come Giovanni Malagodi per
ritrovare una relativa stabilità, anche se la sua segreteria portò ad una
scissione interna come quella de Il Mondo.
L’eredità di Soleri, il quale dedicò l’ultimo anno di vita esclusivamente allo
Stato, anzi direi alla Patria nel senso più alto dell’espressione, secondo
l’esempio risorgimentale di Cavour, fu raccolta da Luigi Einaudi che continuò in
modo eccezionale il lavoro impostato dallo statista con cui aveva collaborato e
di cui era conterraneo. Giuseppe Fassino, senatore liberale per molte
legislature in rappresentanza della Provincia di Cuneo, ha sostenuto, forse non
senza qualche ragione, che Soleri rappresentò anche un elemento di congiunzione
tra Croce ed Einaudi divisi dalla nota polemica su liberalismo e liberismo
economico. Scrive Luigi Einaudi nella prima prefazione alle Memorie di Soleri:
«Erano, quelli del 1945, giorni paurosi per il tesoro italiano: con le entrate
quasi nulle e le spese formidabili e crescenti ed incalzanti. Il lancio del
primo prestito postbellico fu seguito grazie alla sua parola precisa (di Soleri,
n.d.r.) resa avvincente da un fervido pathos patriottico, da un successo
insperato. Chi lo udì invocare, bianco in volto e quasi morente, ma con la calda
appassionata voce di sempre, il concorso di tutti per la salvezza del paese,
ebbe netta la sensazione che quel discorso fosse l’ultimo messaggio agli
italiani di un uomo probo, ansioso soltanto di servire la patria sino all’ultimo
respiro». Per altri versi, Einaudi mise in evidenza il tono avvincente delle
Memorie per la semplicità del dettato e per i frequenti riferimenti di bonarie
ironiche osservazioni di uomini politici su se stessi e sui colleghi».
Nella
storia ci sono dei cicli storici che si chiudono e altri che si aprono in modo
inesorabile ed ogni guerra spesso determina degli sconvolgimenti capaci di
modificare il suo corso. Forse il liberalismo italiano aveva il suo ciclo con
l’età giolittiana: la guerra mondiale, prima ancora che il sistema proporzionale
adottato nel 1919 e il fascismo, ne aveva determinato se non la fine, certo la
profonda crisi. Per altri versi, storicamente, il liberalismo italiano era
dilaniato da un’anima fortemente conservatrice (Salandra) ed una democratico-
progressiva (Giolitti) che spesso contribuirono a determinare scossoni alla
storia d’Italia rivelatisi sovente infelici. Ciò detto, va ribadito che l’unico
uomo politico che avrebbe potuto ridare smalto al liberalismo italiano sarebbe
stato il piemontese Soleri ma la classe dirigente liberale - che si è succeduta
nei decenni fino alla liquidazione del partito liberale - si è rivelata sovente
incapace di seguirne l’esempio, pur in una temperie politico-culturale
profondamente cambiata. Va infine detto che Soleri rappresenta l’orgoglio del
vecchio Piemonte, come afferma Luigi Einaudi nella citata prefazione, che
affonda le sue radici nel Risorgimento. A suo modo, Soleri è stato uomo del
Risorgimento ottocentesco anche come protagonista del nuovo Risorgimento dello
Stato italiano dalle macerie fumanti di una guerra perduta.
I liberali piemontesi e successivamente i finti liberal-liberisti che hanno
dilapidato la tradizione liberale confondendola con il berlusconismo e il
clientelismo, hanno almeno avuto il pudore di non richiamare il nome di Soleri
che, per contrasto, avrebbe rivelato tutta la loro pochezza intellettuale e
politica. Hanno rivelato di non avere radici o, al massimo, hanno fatto
riferimento a Giolitti. La figura di Soleri come servitore dello Stato va
comunque decisamente oltre l’ambito dello stesso liberalismo perché egli seppe
dedicarsi con passione all’interesse del Paese. L’ultimo suo discorso del 15
luglio 1945, a Milano, neppure dieci giorni prima di morire, si chiuse con «Viva
l’Italia!». Era febbricitante, ma doveva lanciare il prestito che avrebbe
salvato la lira e non esitò ad affrontare la prova con uno spirito di servizio
davvero eccezionale.
Nel
1945 il patriottismo era una parola fuori posto perché logorata e consunta dalla
retorica fascista, che aveva portato a morire nelle steppe russe e nei deserti
africani la migliore gioventù italiana. In quei momenti si gridava solo a favore
della propria parte politica in un clima arroventato in cui gli interessi dei
partiti, annullati da vent’anni di dittatura, trovavano libero e non sempre
positivo sfogo. Soleri poté invece chiudere il proprio discorso con un grido
patriottico, lasciandoci come sua estrema eredità l’idea di sentirsi
innanzitutto italiani, al di là e al disopra delle parti. Per poter ricostruire
il Paese distrutto dalla guerra. Resta questo il suo più grande insegnamento che
fa di lui non tanto un politico, ma uno statista degno di entrare nella migliore
storia di questo Paese. L’Italia che continua a prediligere la faziosità,
difficilmente può intendere la sua voce lontana. Come mi disse una volta lo
storico socialista del Risorgimento Aldo Garosci, Soleri “è la voce di un’altra
Italia, è l’espressione di un altro Piemonte che avuto esempi simili solo
nell’800 risorgimentale”. Ci sarà chi vorrà ricordarlo? A partire da Cuneo e dai
suoi alpini, di cui fu presidente nazionale?
Scritto da Pier Franco Quaglieni,
pubblicato Sabato 28 Febbraio 2015 su Lo Spiffero
(2/3/2015 ) |