Ecco perché
l’Occidente non capisce
l’Islam guerriero
e la
realtà dell’Isis
Intervista al
giornalista Domenico
Quirico, l’inviato de La
Stampa rapito dai
jihadist
L’Isis e
il
califfato
sono
fenomeni
completamente
diversi
da Al Qaida:
ma
l’Occidente
non lo
capisce
e
sbaglia
utilizzando
i
medesimi
schemi
per
combattere
i due
fenomeni.
Così
come è
errato
considerare
l’Islam
una
religione
pacifica:
è invece
uno
strumento
di
totalitarismo
che
condanna
senza
appello
tutti
gli
“impuri”
non per
quello
che
fanno,
ma per
ciò che
sono. Ne
abbiamo
discusso
con
Domenico
Quirico,
inviato
de La
Stampa
che
questi
fenomeni
li
conosce
bene per
averli
visti e subìti
(è stato
a lungo
ostaggio
dei
jihadisti)
in prima
persona.
In
base
alla tua
esperienza,
c’è
qualcosa
di
strutturale
nella
cultura
e nella
religione
islamica
che
spinge
verso la
violenza
e
l’affermazione
violenta
di sé?
«Credo
che uno
dei
maggiori
guai
nell’affrontare
la
situazione
attuale
sia
quello
di
costruirsi
un Islam
che non
esiste o
non è
quello
prevalente.
L’Islam
è una
religione
nata in
un
ambiente
naturale
terribilmente
ostile
nei
confronti
dell’uomo
ed è
quindi
guerriera:
il
combattere,
l’allargarsi,
il
difendere
lo
spazio
dell’unica
religione
vera è
una
realtà
fondamentale
per
l’Islam.
Aggiungi
che
tutte le
religioni
monoteiste
sono per
principio
autoritarie.
Il
problema,
però,
oggi è
più
complesso.
La
domanda
da porsi
non è se
i
jihadisti
siano
buoni o
cattivi
musulmani,
perché
la
risposta
è molto
semplice:
loro
sono
convinti
di
essere
dei
perfetti
musulmani.
Il
problema
è che la
religione
- come
la razza
per i
nazionalsocialisti
o
l’appartenenza
al
proletariato
per i
comunisti
staliniani
- è
utilizzata
da loro
come
strumento
per
dividere
il mondo
in buoni
e
cattivi:
per i
jihadisti,
i buoni
sono
loro che
praticano
la
religione
salafita
rigorosa.
Gli
altri
sono
tutti
impuri e
quindi
il
compito
che Dio
assegna
ai
jihadisti
è quello
di
eliminare
gli
impuri
che
inquinano
la
società.
Questo è
il
carattere
terribilmente
pericoloso
di
questo
fenomeno.
Essi
usano la
religione
come
strumento
per la
separazione
della
società
in due
parti. E
chi è
dalla
parte
sbagliata
deve
essere
cancellato,
non per
quello
che fa,
cioè
azioni o
atti che
possano
mettere
in
pericolo
la vera
fede, ma
per
quello
che è. È
una
nuova
forma di
totalitarismo
di cui
la
religione
è uno
strumento».
Ma
questo
tipo di
convinzione
è nel
miliziano
ed è
anche
nel capo
oppure
il capo
utilizza
il
miliziano?
«Il
miliziano
che
arriva
da
Londra
dove
faceva
il
medico e
il
miliziano
che
arriva
da
Tunisi
per
combattere
in Siria
e Iraq
sono
trascinati
dalla
tentazione
totalitaria,
dal
piacere
di
sentire
di
essere
dalla
parte
giusta
del
mondo».
È
questo è
il
motivo
dell’appeal
dell’Isis
anche
tra gli
occidentali?
«Secondo
me, sì.
È
un’avventura
trascinante,
emotivamente
affascinante
il
sapere
di
essere
dalla
parte
giusta
del
mondo,
di
essere
tra i
puri».
Ho
letto
che per
il
giovane
musulmano
che sta
a
Londra,
quanto
più la
società
londinese
si
mostra
tollerante
verso la
sua
religione,
tanto
più per
lui
diventa
odiosa.
«È
vero: se
ti
sequestrano
in un
Paese
musulmano,
l’unica
cosa da
non fare
è dire
di
essere
una
persona
indifferente
al
problema
religioso.
Ti
ammazzano
immediatamente.
Per loro
è meglio
un
praticante
di
qualsiasi
fede,
anche
sbagliata,
che uno
che
dice:
“Per me
la
religione
è
l’oppio
dei
popoli,
è una
fregatura”.
Quello è
inconcepibile
per
loro.
L’ossessione
dell’unità,
poi, è
quello
che
impedisce,
secondo
me, ai
popoli
musulmani
di
praticare
davvero
la
democrazia:
nella
mentalità
musulmana,
il
concetto
che
esistano
più
verità,
e che
queste
verità
si
possano
scambiare
secondo
un
calcolo
numerico,
è
eresia.
Il mondo
è tutto
concentrato
nella
cifra
uno: un
Dio, un
libro,
un
popolo».
Per
la
cultura
islamica,
dunque,
la
democrazia
non è
adatta?
«È
molto
complicata».
E’
legittima
allora
la
prevenzione
della
gente
verso
gli
islamici,
visti
come
qualcosa
di
diverso
e
difficilmente
conciliabile
con la
nostra
cultura
e il
nostro
modo di
vita?
«Il
problema
è che i
musulmani
hanno
fatto
tante
rivoluzioni
- di cui
le
Primavere
arabe
sono le
ultime -
ma tutti
questi
movimenti
rivoluzionari
inevitabilmente
e
rapidamente
sono
tornati
alla
casella
dell’autoritarismo,
del
rais,
del
capo,
perché è
nella
loro
identità.
La
verità è
una e
allora
anche il
capo
deve
essere
uno. Per
l’Occidente,
la
democrazia
è la
legittimazione
della
confusione,
anche se
virtuosa,
nel
senso
che
nessuno
è
depositario
della
formula
giusta.
Questo
per un
musulmano
è
inaccettabile:
è il
disordine,
è un
atto
contro
Dio che
è
ordine.
Poi è
anche
possibile
che si
trovi
qualche
forma di
democrazia
per quel
mondo,
ma non
il
nostro
tipo di
democrazia.
È un
mondo
che non
capiamo,
che
cerchiamo
di
imbullonare
dentro
idee
come
quella
che
l’Islam
sia una
religione
tollerante,
pacifista:
esiste
anche
questo,
ma
attualmente
prevale
l’altro,
quelli
vogliono
rifare
il
califfato
e
cacciare
quelli
che non
sono
musulmani.
Tra
l’altro,
l’Isis
ha messo
su un
Welfare
state.
Questo
nei
giornali
non lo
scriviamo:
pensiamo
che a
Mosul ci
siano
bande di
assassini
che
girano
per le
strade,
violentano
le
donne.
Non è
così: le
prime
cose che
hanno
fatto
gli
islamisti
dell’Isis
a Mosul
sono
state
riaprire
i forni
perché
la gente
potesse
comprare
il pane,
obbligare
i
dipendenti
pubblici
ad
andare
al
lavoro
come
quando
c’era il
governo
centrale,
riaprire
le
scuole.
Questa è
gente
che
vuole
restare,
non va
lì per
saccheggiare.
E noi
continuiamo
a
pensare
che sono
una
banda di
folli
criminali
che,
chissà
come, si
è
impadronita
di un
territorio
grande
come la
Francia
e sta
lì,
massacra,
ruba,
uccide.
Fa anche
quello,
però è
uno
Stato,
c’è
un’amministrazione».
È
questa
la
differenza
tra Al
Qaida e
Isis?
«Questa
è la
novità:
i
jihadisti
non si
muovono
da lì
per i
prossimi
30 anni
se
qualcuno
non va
lì con
forze,
che
attualmente
non
abbiamo,
per
cacciarli.
Il
califfo
non è
Bin
Laden
che
stava
nascosto
nella
grotta.
Questa è
una cosa
completamente
nuova:
c’è una
frontiera
di due
Stati
che è
stata
disintegrata,
creando
una
frontiera
nuova
che
nelle
carte
geografiche
non c’è.
Le carte
geografiche
del
mondo
oggi
sono
false.
La
grande
trovata
pubblicitaria
del
califfato
è stato
dire:
“Io sono
il
califfo,
voglio
ricostruire
il
grande
califfato
del VI
secolo”.
Cosa che
Bin
Laden
non ha
mai
neanche
osato
pensare.
Questo è
pericoloso,
perché
c’è un
progetto,
non è la
follia
di
quattro
fanatici:
l’islamismo
non è un
problema
psichiatrico,
ma
politico
e,
quindi,
molto
più
difficile
da
risolvere.
Al Qaida
e l’Isis
sono due
cose
diverse:
Al Qaida
è il
precursore
primitivo
di un
progetto
politico
completamente
diverso».
Obama
scrive a
Khamenei
e non
disdegna
anche di
dialogare
con
Assad:
l’Isis
può
creare
delle
nuove
strane
alleanze?
«Diciamo
che il
califfo
ha già
sconvolto
le carte
del
passato
e questo
è già un
enorme
risultato
politico.
Il fatto
di avere
costretto
il
presidente
Obama,
che
l’anno
scorso
voleva
bombardare
Assad, a
fornirgli
l’Aviazione,
ha una
influenza
pubblicitaria
enorme a
favore
dell’Isis
perché
Assad è
odiato.
Per i
jihadisti,
quindi,
adesso
l’America
scopre
le
carte:
come
dicevano
loro, è
alleata
di Assad.
E poi,
attenzione
a
dialogare
con
l’Iran:
Teheran
è parte
del
mondo
islamico,
ma è
sciita.
E i
sunniti
odiano
gli
sciiti,
li
considerano
atei,
eretici
pericolosi.
Per cui,
alleandoti
con
l’Iran,
ti porti
dietro
l’odio
di tutto
il mondo
sunnita,
che è
esattamente
quello
che
vuole il
califfo:
unificare
i
sunniti
in
un’alleanza
mondiale.
Tutto
questo è
l’espressione
della
confusione
della
politica
Usa».
Ma
qual è
l’effettiva
forza
militare
e
capacità
offensiva
dell’Isis
contro
l’Occidente?
«La
Cia a un
certo
punto ha
detto
che l’Isis
aveva
3.000
combattenti,
un mese
dopo
siamo
saliti a
40.000.
C’è
qualcosa
che non
funziona
in
questi
numeri.
Diciamo
che il
califfo
non ha
più un
gruppo
terroristico,
ma un
esercito
regolare:
hanno
preso
carri
armati,
artiglieria
pesante,
trasporto
truppe -
tutti
mezzi
americani
di
ultima
generazione
- che
gli Usa
avevano
fornito
agli
sciiti
che,
quando
sono
scappati,
non li
hanno
distrutti.
Al Qaida
era un
problema
di tipo
terroristico,
quindi
di
polizia:
fa
spendere
soldi,
inceppa
l’economia,
insinua
batteri
pericolosi
nella
società
democratica,
ma è un
problema
di
polizia.
Quest’altro
è invece
un
problema
militare:
bisogna
andare
lì con
la
fanteria
e
occupare
un
territorio
enorme,
ostile
per la
sua
stessa
natura e
soprattutto
prevedere
che in
realtà
questa
sfida
militare
non si
limiti a
quel
luogo,
ma che
sia già
estesa
ad altri
luoghi:
Sael,
Libia,
Nigeria,
Somalia,
Repubblica
Centrale
Africana,
Afghanistan.
È la
teoria
guevarista
della
moltiplicazione
dei
fuochi
rivoluzionari.
L’insurrezione
globale
islamica
usa un
classico
sistema
per
indebolire
il
nemico:
tanti
Vietnam
per
disperdere
le forze
dell’avversario,
che non
ha i
mezzi
economici
per
essere
ovunque».
Sei
il
giornalista
che
salva la
categoria
rispetto
alla
ventata
internettiana:
con
internet
non c’è
più
bisogno
di
andare,
di
vedere.
Tu dici
“Sono
uno di
quelli
che vedo
e
racconto”,
ma
lavori
in un
giornale
tra i
più
avanti
nell’innovazione:
ti senti
uno del
secolo
scorso?
«Per
molti
aspetti
sì.
Resto
dell’idea
che il
giornalismo
non è
una
tecnica
e tanto
meno una
tecnologia.
Il
giornalismo
è
racconto
e il
racconto
nasce
dall’essere
in un
posto e
vedere
delle
cose,
anche
una
parte
minimale
della
realtà.
Ci
possono
essere
tutti
gli
internet,
i
satellitari
e i
marchingegni
possibili,
ma alla
fine
resterà
quello:
il
racconto.
Questo
vale a
tutti i
livelli,
sia che
fai
l’inviato
sia che
racconti
il
quartiere
cittadino:
il
giornalismo
sono gli
essere
umani
che
incontri
nelle
tue
frequentazioni.
Se
conosco
molto
bene uno
strumento
tecnico,
non
faccio
giornalismo:
faccio
l’archivista,
sono a
10.000
anni
luce
dall’atto
giornalistico.
Entro
nel
giornalismo
nel
momento
in cui
io vado
in una
situazione
e la
racconto».
Accennavi
prima a
qualche
rappresentazione
impropria,
non
proprio
corrispondente
al vero,
di fatti
e realtà
in Medio
Oriente.
Quali
sono le
maggiori
mistificazioni
che ti
sei
trovato
a
rivedere?
«Rispetto
a questo
terribile
fenomeno,
l’incapacità
di
cogliere
il
passaggio
dalla
fase
terroristica
alla
fase
militare
e
politica.
Io sono
rimasto
fermo ad
Eraclito
e al
logos:
le cose
sono le
parole
con cui
le
definisci.
Se tu un
serpente
lo
chiami
gatto e
poi
cerchi
di
accarezzarlo
come fai
col
gatto,
quello
ti morde
e muori.
Noi
continuiamo
a
chiamare
questo
fenomeno
nuovo
con le
parole
che
usavamo
per Al
Qaida 15
anni fa:
è lì il
problema.
E poi
l’incapacità
di
rendersi
conto
della
rapidità
con cui
questi
fenomeni
si
trasformano
in
realtà.
Sono
stato
liberato
a
settembre
dell’anno
scorso:
allora
non
c’era il
califfato,
l’Isis
era un
movimentino
tra i
tanti
che
c’erano
nel Nord
della
Siria;
ora c’è
uno
Stato,
un
esercito
e una
comunicazione
islamica.
Sì,
perché
questa è
gente
che
manovra
la
tecnologia
dell’informazione
meglio
di noi o
degli
americani.
I video
che
hanno
fatto di
queste
terribili
esecuzioni
sono
girati
secondo
una
scenografia
e una
regia
molto
sofisticate.
Altro
che
gente
che vive
nel
Medio
Evo!
Bisogna
stare
attenti,
non c’è
la
percezione
di
questo:
se leggi
i
giornali,
trovi le
crocefissioni
e poi
l’intervista
all’imam
italiano
che dice
che i
jihadisti
sono dei
sanguinari.
Ma
quello
che è
fuori
dal
mondo è
l’imam
italiano
che, se
andasse
non a
Mosul,
ma anche
in
qualche
quartiere
del
Cairo o
di
Tunisi,
dopo due
minuti
sarebbe
linciato.
Questa è
la
verità».
Intervista a cura di
Maria Ausilia Boemi
pubblicata su La Sicilia
l'11 novembre 2014
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