Responsabile

Leo Alati

Una parola

Era una vita che Cesco aveva in mente quella parola.

Ricordava che nonno Peru la diceva spesso, parlando del suo tempo passato; un tempo che aveva speso in trincea, a combattere e a veder morire, come si può morire a vent’anni, con tutti i sogni ancora in fasce ed il sorriso aperto di ragazzo.

Lui aveva preso la tradotta che portava a casa, era stato fortunato.

Aveva potuto guardare ancora i suoi campi e i filari di vite crescere e dare frutto, aveva potuto sorseggiare il suo vino con gli amici, guardando il sole che andava a nascondersi dietro le colline e ricordando i volti di quelli che erano rimasti per sempre laggiù, in quelle trincee, appesi ai reticolati, ombre perdute in quei monti o nelle pietraie di fiumi lontani e dai nomi sconosciuti.

Ma gli uomini non imparano, ed era venuta un’altra guerra e ancora morte, dolore, giorni fatti di paura.

Uomini vestiti di nero erano venuti in quella terra, nella sua terra.

Avevano ucciso, distrutto, preso le loro donne, mangiato il pane della fatica e bevuto il vino delle sue vigne.

Uomini che volevano cancellare i sogni, le speranze, tingere di scuro i giorni a venire.

Ma non avevano fatto i conti con quella parola; quella parola che suo padre e suo zio, partigiani in quel tempo triste, avevano pronunciato di nuovo, insieme a molti altri.

Poi, il vento della disperazione era passato ed era venuto un refolo nuovo, una folata fresca, che aveva colorato terre ed animi d’un colore acceso, acceso come la vita.

Cesco era un bambino di quasi dodici primavere; due gambette d’osso infilate in un paio di braghe corte, ginocchia rosse di capitomboli e ruzzoloni nelle strade di ghiaia e polvere.

Di giorno, appena finita la scuola, di corsa nei cortili e fra le vigne, armato di un fucile di legno, a giocare alla guerra, a quella guerra che mai aveva visto.

Non doveva farsi scorgere da nonno Peru, perché il vecchio più di una volta lo aveva gratificato con uno scappellotto così sonoro da fargli perdere l’equilibrio.

“Cambia gioco. Te lo brucio quel fucile...”

E lui via, a correre, a cercar amici, a rotolarsi nell’erba nuova.

Per la sua festa, nonno Peru gli aveva regalato un tamburello, un tamburello vero, con una pelle di asino tesa  e sonora come quella di una grancassa.

“Così impari e magari diventi bravo come loro.”. Gli aveva detto, portandolo una domenica a vedere i campioni, quelli veri, che giocavano il campionato nella spianata sotto il castello.

E dopo la partita, al bar del Tonio, a bere la birra con la gassosa, per sentirsi già grande.

Ma in quel tempo, non c’era soltanto il tamburello e la pallapugno.

C’era anche la musica, una musica fresca e ricca di ritmo.

Cesco aveva guardato a bocca aperta quel gran mobile colorato, in bella vista nel bar.

In paese dicevano che veniva dall’America e non era difficile crederci, tutto doveva per forza venire dall’America, anche se i dischi erano spesso di Celentano, Mina e Gianni Morandi.

Lui e gli altri amici, guardavano le coppiette ballare e quando i balli si facevano lenti e i giovani danzavano guancia a guancia, tentando qualche bacio, loro fischiavano forte e poi scappavano lontano, inseguiti dagli improperi dei disturbati.

In quegli anni, tutto era nuovo, tutto era più colorato, tutto era più vivo e ogni scusa era buona per fare festa.

Bastava poco; le canzoni si ascoltavano anche nei mangiadischi e uno di quelli era già sufficiente per ballare; nel cortile o in piazza, sotto gli occhi severi dei vecchi.

Qualche volta, anche loro lasciavano correre e si dimenticavano di brontolare.

Ricordava ancora quando era arrivata la prima televisione.

Il padrone del bar ne aveva annunciato l’arrivo tempo prima e quel giorno tutto il paese si era radunato fuori il locale.

Gli avventori più assidui erano seduti dentro, nei posti d’onore e commentavano ogni movimento.

Ci volle un poco di tempo per sistemare il grosso televisore, in bella mostra al centro del bar.

Stupore, stupore ogni sera e folla , a guardare quello che lo scatolone colorato eruttava.

Colori, musica, gioia.

Il Pinot, uno scapolo impenitente, dal naso più lungo di Coppi e dal carattere più scontroso di Don Camillo, aveva deciso che la televisione faceva male agli occhi, faceva venire mal di testa e, se la guardavi troppo, non saresti mai riuscito ad avere figli.

Nessuno capì mai dove le avesse trovate il Pinot, quelle informazioni; la verità fu che anche lui capitolò, quando nel grosso scatolone comparve il viso angelico, e non solo quello, della Bardot.

Da quella sera fu sempre in prima fila, dimenticando i deleteri effetti del tubo catodico.

I tempi del dolore erano lontani, lontani ma non dimenticati, adesso che i boati nel cielo erano soltanto  temporali d’estate e i botti che risuonavano nelle valli non erano colpi di fucile, ma gli schiocchi delle gare di pallapugno o gli scoppi dei tubi di scappamento delle seicento e delle Lancia Appia.

E ancora tornava quella parola, che rotolava nella bocca e scendeva nel cuore.

Era un giorno di primavera, quando sua madre aveva voluto che l’accompagnasse; un giorno chiaro e pulito, come sono i giorni da queste parti, appena dopo un temporale.

Gli aveva dato da portare un grosso mazzo di fiori, rose bianche e margherite, un binomio tenero, dolce e delicato di profumi e colori.

Non avevano parlato, durante il breve cammino.

Avevano raggiunto il piccolo cippo, ai margini della strada di pietre che portava su, nelle vigne, quasi in punta di piedi, quasi avessero paura di disturbare.

Sua madre gli aveva fatto lasciare i fiori proprio lì, dove cinque partigiani erano stati giustiziati, le loro giovani vite strappate in un giorno come quello e i corpi lasciati a penzolare dai pali del telegrafo.

Quel giorno era cominciato come sempre; il disco rosso era salito dal fondo dell’orizzonte, come ogni volta, e sarebbe scivolato fra i monti, la sera.

Il padre di Cesco era andato in città, a cercare rifornimenti ma suo fratello era rimasto lì, insieme agli altri.

I soldati vestiti di nero erano numerosi, bene armati e sapevano dove andare.

Era appena l’alba, quando risuonarono i primi colpi di moschetto, poi le mitragliatrici.

Soltanto cinque sopravvissuti alla battaglia.

Cinque. Uccisi ed impiccati, prima del tramonto.

Cinque, ad attendere lacrime di madre.

Cinque madri, a scoprire di non avere più lacrime.

Ed ancora quella parola, un soffio fra le labbra un soffio nel ricordo.

Ora le gambe di Cesco non sono più grissini d’ossa, ora che nonno Peru è tornato polvere; polvere in questa terra dura, dove anche il pianto secca subito, in questa terra di conchiglie, memoria di un mare antico, dove servono sudore, fatica e preghiere.

E non sempre sono bastanti.

Ora sul capo di suo padre cresce l’argento e sua madre porta ancora i fiori, ma cammina più adagio.

Spesso si ferma sul sentiero, ad accarezzare il suo tempo.

Cesco è diventato uomo, in quella terra dei padri.

Non vuole che il tempo dell’abbondanza cancelli la memoria, sarebbe facile scordare.

Le canzoni, le auto brillanti come caramelle, che arrancano sulle strade di polvere, la gioia del lavoro e del riposo, quella voglia di vivere e di ricostruire.

Sarebbe facile scordare, sarebbe facile pensare che tutto il buio è stato soltanto un brutto sogno, adesso che nuova neve ha pulito il cielo, adesso che le stagioni del sole hanno accarezzato altre vite.

Sarebbe facile scordare.

Così, in quel giorno di gioia, in quel giorno nel quale era nata la sua prima figlia,  decise di mutare quella parola in nome, nel nome di quella sua bambina, affinché nessuno mai, potesse dimenticare.

Quando il prete chiese che nome avessero scelto, Cesco accarezzò con lo sguardo sua moglie, sorrise a quella sua terra e rispose sicuro: Libertà.

 Silvano Nuvolone

 

 

© 2012 La Risaia   La voce dei riformisti vercellesi

Webmaster & Design by Francesco Alati

Home