Responsabile

Leo Alati

La solitudine del procuratore

Un saggio racconta misteri e retroscena dell’omicidio di Bruno Caccia nel 1983

 

Il procuratore capo Bruno Caccia. Nato a Cuneo nel 1917, venne assassinato a Torino il 26 giugno del 1983. A distanza di 33 anni il delitto ha ancora molti punti oscuri

Se a Torino ci fosse stato un magistrato-scrittore con il talento narrativo di De Cataldo, al posto di «Romanzo criminale» e della saga della banda della Magliana avremmo avuto un grande affresco sulla «mala» subalpina degli Anni Ottanta e su quel buco nero che ancor oggi, a distanza di oltre 33 anni, è l’omicidio del procuratore Bruno Caccia.

 

Invece, pur non mancando giudici e pm con la vocazione della scrittura, nessuno ha voluto (o potuto) cimentarsi con l’impresa di raccontare quella Torino che per oltre un decennio, dalla metà degli Anni Settanta in poi, fra terrorismo e criminalità organizzata, sembrava una piccola Chicago. Droga a fiumi: eroina nelle strade, cocaina nei night-club. Bische, rapine, prostituzione. Sequestri di persona, estorsioni, ricatti. E decine e decine di morti ammazzati nei «regolamenti di conti», come scrivevano i giornali dell’epoca.

 

UN LIBRO SCOMODO

Ci ha provato Paola Bellone, avvocato che da una quindicina d’anni ricopre a Torino l’incarico di vice procuratore onorario, cioè uno dei «precari» della giustizia che svolgono un ruolo fondamentale aiutando i pubblici ministeri a mandare avanti i processi. Quando Caccia è stato ucciso Paola Bellone era appena una bambina, tuttavia spulciando fra sentenze e atti giudiziari e intervistando i protagonisti dell’epoca è riuscita a ricostruire in modo dettagliato i fatti di quel tragico 1983 e degli anni successivi in un agile saggio dal titolo «Tutti i nemici del procuratore», pubblicato da Laterza.

 

È un libro interessante, fondamentale per riscoprire la figura dell’unico magistrato dell’Italia del Nord ucciso dalla criminalità organizzata e per capire certe dinamiche che hanno portato la ’ndrangheta (che all’epoca era definita in modo romantico e cinematografico «Il clan dei calabresi») a diventare la prima mafia del Paese, sicuramente la più ricca e potente nelle regioni settentrionali.

Ma è anche un libro scomodo, che a molti non piacerà. Perché, assecondando le ipotesi di alcuni magistrati che all’epoca collaborarono con il procuratore e la tesi della stessa famiglia del giudice assassinato, ci sbatte in faccia tutti gli aspetti ancora oscuri della fine di Bruno Caccia. Che aveva molti nemici, come recita il titolo del libro, non solo gli ’ndranghetisti della cosca di Domenico Belfiore. Alcuni nemici, dimostra la Bellone rileggendo le carte processuali, erano vicini, vicinissimi al magistrato ucciso.

 

IL LATO OSCURO DELLE TOGHE

Addirittura colleghi: giudici e pubblici ministeri pericolosamente prossimi agli ambienti che Caccia da sempre combatteva: boss della criminalità organizzata, ricettatori, personaggi in odor di massoneria, galoppini del sottobosco politico, tangentisti. Nel libro Paola Bellone fa nomi e cognomi, confortata dalle carte processuali. E racconta aneddoti degni di un film di Francesco Rosi o Elio Petri: il giudice che accetta regali per «aggiustare» le sentenze, quello che si rivolge ai ricettatori per riavere i preziosi candelabri che gli sono stati rubati in casa, il pubblico ministero al processo delle Brigate Rosse che per paura di rappresaglie si fa «scortare» dal Clan dei Calabresi e trova rifugio nella villa del ricettatore legato alla ’ndrangheta. E ancora magistrati che giocano a poker con i malavitosi, che vanno a cena nel ristorante degli usurai, che per una serata allegra si fanno prestare la garçonniere dell’affiliato alla cosca. E che hanno in casa lingotti d’oro provenienti dalla grande rapina alla Brink’s Securmark di Roma.

 

I FASCICOLI SPARITI

Il procuratore combatteva questa parte inquinata della magistratura torinese e possedeva dei fascicoli segreti sui colleghi «deviati». Dopo la sua morte non verranno mai ritrovati. Eppure anche la Procura di Milano, che indagò sull’omicidio, preferì non scavare al di là degli esecutori materiali e del presunto mandante Belfiore. E i magistrati infedeli (tranne uno) se la cavarono con una sfilza di assoluzioni e i piccoli rimbrotti del Csm: un trasferimento, una censura.

Nessuno provò a fare luce sugli intrecci sporchi delle inchieste di Caccia: sui retroscena della Tangenti Story al Comune di Torino, sullo scandalo petroli che coinvolse uomini di Andreotti, sul riciclaggio al Casinò di Saint-Vincent. Un boss calabrese dalla bocca cucita è il migliore fra i colpevoli.

 

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