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Leo Alati

 

 

 

La Risaia

 

 

Mensile dei riformisti vercellesi

Riformismo oggi

Mauro del Bue

C’era un tempo (non lontano) in cui essere definiti riformisti equivaleva ad un’ingiuria. E neppure da poco. Significava non voler mettere in discussione il sistema (come si affermava nel confuso sessantotto) o addirittura tradire l’ideologia, quella marxista o marxista leninista, che prevedeva crolli improvvisi del capitalismo, dissoluzione di ceti intermedi, azioni rivoluzionarie per la presa del potere, dittature più o meno transitorie del partito-proletario. Questo naturalmente nel partito dominante della sinistra, il Pci, e ancor più nei gruppi che pullulavano alla sua sinistra. È vero che il togliattismo era capacità di coniugare moderatismo e stalinismo, realismo e rivoluzionarismo, ma anche il togliattismo e i suoi epigoni non hanno mai accettato il riformismo, se non nella rivalutazione interessata di alcuni “venerati maestri” del passato (così li definì Togliatti nel settembre del 1946 nel suo discorso di Reggio Emilia dedicato al rapporto coi ceti medi). Il riformismo no, al massimo le riforme di struttura, utili per aprire le contraddizioni e poi l’avvento del socialismo.

La politica della pianificazione economica era certo una moderna strategia di concepire l’economia italiana da parte di Nenni e Lombardi e del primo centro-sinistra, ma le difficoltà di applicarla (Lombardi scelse di non fare il ministro, mandò Giolitti nel dicembre del 1963 e nell’estate del 1964 ritirò la sua corrente dal governo) significava, anche per una parte del Psi (un’altra parte se ne andò nel gennaio del 1964 e fondò il Psiup dall’opposizione), che in Italia non esistevano per loro le condizioni per una politica di riforme. E se anche si chiedevano e si potevano fare riforme, questo era solo un mezzo e non il fine. Una cosa era infatti la strategia delle riforme, altra cosa l’assunzione del riformismo. La prima non presupponeva la seconda. Che questa impostazione sia stata prevalente a sinistra in Italia lo dimostra il fatto che anche il Psi, fino all’età demartiniana, non prediligeva la tradizione riformista e men che meno la socialdemocrazia europea (allora non c’era alcuna Bad Godesberg all’orizzonte).

Anche nel mondo cattolico italiano il riformismo non fece mai breccia. Forse solo con Ezio Vanoni e la sua innovativa riforma tributaria e anche nei convegni di San Pellegrino dei primi anni sessanta che pilotarono la Dc al centro-sinistra vi fece anche culturalmente capolino. In generale la sinistra democristiana, e in particolar modo quella dossettiana, era più affine a un popolarismo di sinistra conciliabile con suggestioni presenti nel Pci e in altri gruppi di sinistra, grazie a una sorta di integralismo ideologico che li accomunava, che non al troppo laico e disincantato riformismo in salsa turatiana.

Anche a destra parlare di riformismo era peccato: la destra contestava il sistema, e rimpiangeva il passato, sognava avventure e colpi di mano. Odiava la repubblica e la sua razionalizzazione.

Anche durante l’unità nazionale il Pci berlingueriano si definiva “rivoluzionario e conservatore”, sognando una terza via tra comunismo sovietico e socialdemocrazia europea, e perfino la Dc di Zaccagnini affermava una strana identità, quella di un partito “moderatamente rivoluzionario”. Il riformismo sembrava una parola impronunciabile. Ricordi sbiaditi, oggi.

Solo il Psi di Craxi scelse con coraggio (e a maggioranza) il riformismo come punto di riferimento al congresso di Palermo del 1981, mentre negli stessi anni ottanta alcuni comunisti come Napolitano venivano definiti spregiativamente “miglioristi” (l’accusa era un pò meno grave di quella di riformisti) all’interno del Pci.

Adesso tutto è cambiato. La sinistra, il centro e la destra si ritengono tutti e tre riformisti. Usano un termine senza conoscerlo. Ne abusano il significato. Il riformismo non è un’indistinta identità, un’occasione per vestire altre casacche rispetto a quelle tradizionali, né è solo una posizione favorevole alle riforme.

La storia del riformismo è indissolubilmennte legata a quella del socialismo. E’ l’altra faccia della medaglia per la trasformazione della società rispetto a quella rivoluzionaria e massimalistica. Implica la certezza che non vi saranno ore x (intanto le riforme e poi il resto), comporta la consapevolezza che il socialismo non sia una meta, ma un divenire continuo (“nelle teste e nelle cose”, come diceva Turati), determina il fatto che non esista dogmatismo e ideologismo superiori al bene comune, e in particolare al bene di chi sta peggio, nonché l’esistenza di una laica e suprema virtù della ragione e della tolleranza. Il riformismo non è solo un metodo, è l’assunzione di un filone di pensiero. E’ questo che si continua a non comprendere.

Oggi ha un senso e cosa implica essere riformisti? Domanda che richiederebbe spazi adeguati. Condensiamo le risposte così. In tutta Europa esistono partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Si tratta di forze anche diverse, ma che trovano nel Pse un punto di sintesi. Penso tuttavia che la storia del socialismo italiano, e in particolare le intuizioni degli anni ottanta sul liberalsocialismo che tanto hanno influenzato anche l’evoluzione di leader e partiti europei, in primis Tony Blair, debba restare per noi punto di riferimento essenziale. Oggi il socialismo, più che presupporre la socializzazione dei mezzi di produzione, deve infatti implicare la socializzazione degli individui. La liberazione degli uomini e delle donne da quelle che definimmo le vecchie e le nuove povertà. Oggi sono tornate d’un tratto, e prepotentemente, alla ribalta le prime.

La crisi finanziaria ed economica ha riportato l’Italia in una situazione di povertà che si respira in modo sempre più preoccupante. Recessione, disoccupazione soprattutto giovanile, perdita continua dei posti di lavoro, calo vertiginoso dei consumi sono all’ordine del giorno, mentre l’Europa è sempre più dominata dalla Bce e dal governo tedesco, perdendo così la bussola che avrebbe dovuto condurla alla sua unità. Penso che l’obiettivo del socialismo riformista debba sempre più essere quello di costruire l’Europa politica. Senza l’unità politica dell’Europa altri poteri governeranno in Europa e dunque anche in Italia. L’Europa al primo posto, dunque. Poi una politica per il lavoro. Altro che ideologismo e dogmatismo del passato.

Oggi ci sono due nemici da combattere a viso aperto: la disoccupazione crescente e la chiusura delle imprese, con conseguente ulteriore perdita di posti di lavoro. Tutto il resto deve essere messo in secondo piano. E questo, da settori del vetero-sindacalismo, non viene compreso. Così si ingaggiano battaglie di secondaria importanza e si lasciano quelle rilevanti nel dimenticatoio. Perché gli operai italiani sono quelli meno pagati d’Europa, dopo essere stati fino agli anni ottanta quelli più remunerati? E perché il sindacato non ha fatto una seria politica salariale e solo una politica sindacale (cioè prevalentemente sul suo ruolo?).

Rilanciare la crescita, dunque, permettere, nella transizione che non sarà breve, assunzioni senza creare eccessivi vincoli alle aziende (la legge Biagi non è da buttare, signora Camusso) e investire nella formazione per i giovani. Liberarsi di molti dogmi e aprirsi alle posizioni migliori e più vantaggiose (meglio Ichino di Landini, per un riformista). Concentrarsi sulla formazione, sulla scuola, sulla ricerca. Far emergere il merito, combattere la spesa improduttiva (la politica oggi è considerata una spesa improduttiva e per questo è sotto gli occhi della pubblica opinione). Anche nei momenti di crisi si deve considerare un’opzione di fondo. E questa priorità deve essere la questione giovanile. I giovani sono stati e sono oggi violentati da uno stato sociale italiano sbagliato, che ha prodotto disuguaglianze e ingiustizie e che rischia di impedire loro di avere un futuro. I nuovi poveri devono essere liberati dall’oppressione dei troppi garantiti, secondo una logica dell’equità (e non del generico egualitarismo) che già ci contraddistinse in quella meravigliosa Rimini del 1982.

Ma su tutto emerge oggi il problema italiano, la crisi e i guasti della cosiddetta seconda Repubblica. Senza il superamento di questa fase politica si continuerà a brancolare nel buio o a delegare il governo ai tecnici. Compito del moderno riformismo è quello di lottare per battere questo sistema politico perché anche in Italia ritornino i partiti storici che solo in Italia sono stati aboliti, e con loro le identità politiche che sono poi quelle dell’Europa di oggi e di domani. Perché questo sistema ha fallito, ha fatto crescere il debito pubblico (dall’85 al 125 %), ha bloccato la crescita (dello 0,6% mediamente negli ultimi vent’anni), ha creato più disoccupazione, minore governabilità, maggiore distacco dei cittadini dalla politica e anche più corruzione. Su questo il nostro riformismo deve essere davvero radicale.

pubblicata dall'Avanti giovedì 19 aprile 2012

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