Matteo Renzi - Il re è nudo
Antonio Lettieri
La crisi dell’eurozona ha assunto un carattere strutturale. Fra la Germania
e la maggioranza dei paesi dell’eurozona si è creata una spaccatura incolmabile.
Matteo Renzi in Italia come in Europa non trascura mai di sottolineare con
orgoglio il suo indiscutibile successo elettorale alle elezioni europee. La
spiegazione, se vogliamo trovarne una non casuale, sta nel fatto che, differenza
di altri governi usciti sconfitti dalla prova elettorale, il neonato governo di
Renzi non poteva essere considerato complice delle sciagurate politiche europee.
Renzi si è presentato come uomo nuovo, un outsider della politica, deciso,
secondo uno slogan fortunato, a “cambiare verso” alla politica italiana ed
europea. Un compito certamente ambizioso.
Consapevole delle difficoltà, soprattutto in relazione all’obiettivo europeo, ha
scelto di giocare la partita decisiva, rivolgendosi direttamente ad Angela
Merkel. A Berlino Renzi non sì è presentato a mani vuote. Innanzitutto ha
rassicurato Frau Merkel circa la sua piena adesione al rispetto delle regole di
bilancio stabilite in Europa – il deficit di bilancio al di sotto del tre per
cento e l’impegno alla riduzione del debito dall’attuale 133 al 60 per cento del
PIL nell’arco di venti anni, in ottemperanza al Fiscal compact.
Ha anche garantito il suo impegno ad attuare le riforme strutturali, che sono il
vero cuore della strategia europea. In breve: la piena liberalizzazione del
mercato del lavoro con la sostanziale libertà di licenziamento, la riduzione
della spesa pubblica e la privatizzazionie di ciò che rimane del patrimonio
pubblico nei settori industriali e dei servizi. Questi gli agnelli sacrificali
sull’altare delle politiche europee, sperando di ottenere in cambio maggiore
flessibilità nell’applicazione delle regole di austerità.
Angela Merkel ha apprezzato la dichiarazpne di fedeltà al rigoroso rispetto dei
vincoli di bilancio. Ma, com’è nel suo stile, quando discute di questi temi con
i capi dei governi stranieri, non ha assunto nessun impegno specifico. Non ha
detto né si, né no. Come sempre, la prima risposta è toccata a Wolfgang Schäuble,
il potente ministro delle Finanze che governa la politica economica tedesca, e
informalmente, col supporto della tecnocrazia di Bruxelles, quella dell'eurozona.
“L’attenzione sulla crescita e sulle riforme è giusta e la sosteniamo
pienamente, ha sentenziato Schäuble,…ma le riforme non devono essere l’alibi per
evitare il consolidamento dl bilancio”. In altri termini, l’Italia deve
attenersi alle raccomandazioni dell’Unione europea e “rafforzare le misure di
bilancio per il 2014”. Gli fa eco il nuovo Commissario agli Affari Economici
della Commissione europea, Jyrki Katainen, già primo ministro finlandese e
successore di Olli Rehn che ha dichiarato al Die Welt:: “discutere di maggiore
flessibilità nell’interpretazione del Patto di stabilità è pericoloso, è un
dibattito sbagliato”. I personaggi cambiano, ma l’asse Berlino-Bruxelles rimane
saldo. In ogni caso, Gian Carlo Padoan, che presiede l’Ecofin durante il
semestre di presidenza italiana dell’UE, per evitare malintesi, ha voluto
chiarire, secondo il resoconto di “24 ore”, che il governo italiano è “sulla
stessa linea del governo tedesco”.
Che rimane della magica flessibilità invocata da Renzi? Se tutto va bene,
l’Italia otterrà al pari della Francia e della Spagna la dilazione di un anno
per tagliare il traguardo del pareggio strutturale del bilancio e per l’avvio
del Fiscal compact. In sostanza, tutto come prima. Sotto il vestito niente,
secondo il titolo di un vecchio film.
E’evidente l’errore o, se si preferisce, l’ingenuità di Renzi. Non puoi cambiare
la politica europea con un gioco di parole. Se ne accetti i vincoli, ti
sottoponi alla medicina dell’austerità che, sia pure con qualche modesto
aggiustamento del dosaggio, più che curare la malattia sta lentamente e
inesorabilmente uccidendo il malato.
In effetti, la crisi dell’eurozona ha assunto un carattere strutturale, che si
manifesta in una profonda spaccatura al suo interno. Fra la Germania e la
maggioranza dei paesi dell’eurozona si è creato una voragine incolmabile.
Durante la crisi la Germania ha continuato a rafforzarsi. Nel 2014 crescerà,
secondo le previsioni, intorno al 2 per cento del PIL, che è non solo la misura
più alta fra i maggiori paesi dell’eurozona, ma è, grosso modo, pari alla
crescita degli Stati Uniti. La differenza è nel persistente disavanzo
commerciale americano, al quale la Germania contrappone un avanzo stratosferico
pari al 7% per PIL. La Germania è diventata la Cina dell’occidente
capitalistico.
Vi è di più. Con il 2015, in Germania entrerà a regime il salario minimo legale
di 8,5 euro, pari a circa 11,5 dollari, contro i 7,25 dollari in America, che
Obama tenta, senza ancora riuscirvi, di portare per tutti al minimo di 10.10
dollari. Ma ancora più sorprendente è che, a fronte del ristagno salariale negli
USA, Jens Ulbrich, capo economista della Bundesbank, dichari in una recente
intervista allo Spiegel, di considerare positivamente l'aumento di oltre il 3
per cento dei salari, e di sostenere l'impegno dei sindacati per accordi
salariali volti a elevare il tasso di inflazione. Così in Germania esportazioni
e aumento dei salari puntano a realizzare una maggiore crescita e a consolidare
la riduzione della disoccupazione, che è già significativamente inferiore alla
media della zona euro, pari a circa la metà di quella italiana e a un quarto di
quella spagnola.
Riassumendo, il ruolo di medio-grande potenza a livello mondiale dà alla
Germania una egemonia incontrastata sulla zona euro. Mentre Francia e Italia, le
due maggiori economie dell'eurozona dopo la Germania, sono progressivamente
ridotte al rango di province sottomesse a un impero economico che impone regole
politicamente vincolanti ed economicamente devastanti.
La domanda è: fino a quando? Le elezioni di maggio hanno umiliato i governi dei
maggiori paesi dell’Unione europea. Abbiamo visto Cameron travolto dall’avanzata
dell’UKIP, il partito indipendentista che si batte per l’uscita della Gran
Bretagna dall’UE. François Hollande relegato al terzo posto tra i grandi partiti
francesi, con la vittoria di Marine Le Pen che progetta l’uscita della Francia
dall’eurozona. A sua volta, il Partito popolare di Rajoy, trionfatore nelle
passate elezioni spagnole, perde venti punti, conservando un’esigua maggioranza
relativa in Parlamento solo in virtù della divisione della sinistra.
Non stupisce che, in questo panorama di sconfitte, brilli la stella di Matteo
Renzi. Il quale ha, di fatto, allargato la propria maggioranza a una Grande
coalizione non dichiarata con la rinata Forza Italia. Non a caso, Renzi conta di
poter realizzare col sostegno di Berlusconi il programma di riforme, tra le
quali spiccano quella dell’abolizione del Senato e quella elettorale che,
combinate, minacciano di trasformare la democrazia italiana in un regime
oggettivamente autoritario. Disegno fortemente sostenuto da Berlusconi, ora più
forte e in grado di porre le sue condizioni, dopo l’insperata e sorprendente
assoluzione nell’infamante “processo Ruby”.
Ma c’è qualcosa di sostanziale, irriducibile alla retorica del cambiamento, che
insidia alle radici l’ambizioso progetto di governo di Renzi. L’Italia vive,
dopo la Grecia, la peggiore condizione economica dell’eurozona: giunta al terzo
anno di recessione, per il 2014 è annunciata una crescita prossima allo zero, se
non negativa, e un livello di disoccupazione in continuo aumento, dopo essere
più che raddoppiato rispetto all’inizio della crisi.
Il problema di Renzi, come quello di Hollande, è nella trappola tedesca
dell’austerità. Il Partito democratico di Matteo Renzi è stato il partito più
votato nel Parlamento europeo, ma nessuno ha avuto il coraggio di svelare che il
re è nudo. La politica imperiale della Germania sta uccidendo le province dell’eurozona.
Cameron cercherà di guadagnare le elezioni britanniche del 2015, rafforzando la
sua richiesta di modifica dei trattati europei, e rilanciando l’impegno di
tenere entro il 2017 l’annunciato referendum “dentro o fuori dell’Unione”.
François Hollande è precipitato a un livello di consenso popolare inferiore al
20 per cento, il più basso nella storia della V Repubblica. Rajoy dovrà dar
conto con le elezioni del prossimo anno del disastro provocato alla Spagna, con
un debito pubblico più che raddoppiato rispetto all’inizio della crisi e un
tasso di disoccupazione del 25 per cento, come nelle stagioni più oscure della
Grande Depressione in America. Con l’Italia senza crescita, e con più
disoccupazione e povertà, Renzi potrebbe pentirsi di aver dichiarato fedeltà ai
vincoli imposti da Berlino in cambio di un’inafferrabile quanto inconsistente
flessibilità.
In questo scenario, la trappola tedesca del binomio austerità-riforme
strutturali non potrà più essere camuffata. O le élite che governano le province
dell'eurozona si piegheranno ai vincoli dell’impero sotto la falsa copertura di
una più serrata, in effetti, subalterna integrazione. O, forse, più
probabilmente, le province esauste, e sull’orlo di una crisi democratica,
potrebbero ribellarsi all’impero con la dichiarazione di fallimento dell’eurozona,
così come l’abbiamo conosciuta in questo primo scorcio di secolo.
Articolo pubblicato su www.insightweb.it/
3 agosto 2014 |