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Leo Alati

G. Orwell, un socialista contro tutti i totalitarismi

Edoardo Crisafulli

Voglio cominciare questo nuovo anno con l’elogio di un personaggio d’eccezione: Eric Arthur Blair, alias George Orwell. I centodieci anni dalla nascita (1903) ricorrevano nel 2013, e l’anniversario è passato quasi sotto silenzio. Eppure Orwell è uno degli intellettuali più acuti e vivaci del Novecento. Scrittore e giornalista – i suoi articoli sono gioielli della letteratura inglese contemporanea –, era dotato di una grande onestà intellettuale. È famoso per La fattoria degli animali (pubblicato a guerra conclusa, nel 1945), satira pungente sulla rivoluzione bolscevica e le sue degenerazioni autoritarie (“tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”), e 1984 (scritto nel 1948 e pubblicato nel 1949), il romanzo-denuncia del totalitarismo tecnocratico (“il grande fratello ti sta osservando”). Quei due capolavori politico-letterari divennero manifesti ideologici nella lotta contro il Moloch sovietico. I conservatori più retrivi se ne appropriarono subito. Facevano finta di non sapere che Orwell usava parole di fuoco anche contro di loro e i ceti possidenti di cui erano espressione. Costoro si guardavano bene dal combattere le iniquità del sistema capitalistico. Il loro anti-comunismo non era altro che un paravento per difendere privilegi e rendite.

Certo, Orwell nel dopoguerra aveva in mente soprattutto la minaccia comunista. Ma temeva anche i rigurgiti fascisti. I gruppi finanziari-industriali che avevano favorito l’ascesa di Hitler e Mussolini erano ancora al loro posto, indenni nonostante la tempesta che avevano contribuito a scatenare. Orwell non accettava l’interpretazione autoassolutoria dei conservatori: il nazi-fascismo non è solo una reazione distorta al bolscevismo, una sorta di eccesso di autodifesa preventiva da parte di ceti sociali che si sentivano minacciati dal terrore rosso. Orwell aveva una visione più obiettiva: l’egoismo di classe è stato il vero carburante della controrivoluzione in Europa. È vero che i comunisti e i massimalisti soffiavano sul fuoco rivoluzionario. Così divisero, e quindi indebolirono, la sinistra democratica europea. Ma il fanatismo ideologico non spiega tutto. La borghesia capitalistica, non solo quella tedesca e italiana, aveva enormi responsabilità. I conservatori, che ne curavano gli interessi, sarebbero scesi a patti col demonio pur di non cedere alle rivendicazioni operaie e contadine, neppure quando a quelle ragionevoli. E infatti, quando la controrivoluzione dilagò in Italia e in Germania, scattò, per automatismo, la solidarietà dei conservatori di tutta Europa. Churchill nutriva simpatie per Mussolini, il restauratore dell’ordine costituito, e sperava (al pari di Pio XII) che Hitler costituisse un baluardo permanente contro il comunismo. Del resto, è noto che gli inglesi e gli americani commerciarono con la Germania nazista, facendo affari d’oro, fino a poche settimane giorno prima che scoppiasse la guerra.

Se i conservatori tentarono manipolare il pensiero di Orwell, i comunisti ne demonizzarono la figura, com’era nel loro stile. Su Orwell l’eretico calò la mannaia della scomunica. Venne bollato come un traditore della classe operaia e della sinistra, lui che si batteva per i diritti dei lavoratori e dei diseredati in Gran Bretagna; lui che aveva imbracciato il fucile contro i fascisti del Generalissimo Franco (fu ferito gravemente in Spagna)!

Orwell è stato un antesignano di un socialismo dal volto umano nel pieno della Guerra civile spagnola. Eran tempi duri, quelli: gran parte della sinistra, nei paesi democratici, era filo-sovietica o comunque strizzava gli occhi ai “compagni che sbagliavano” in Russia. Orwell criticò duramente il bolscevismo anche durante la seconda guerra mondiale, quando l’alleanza che l’Occidente libero aveva stipulato con l’Unione sovietica rendeva le sue posizioni scomode in patria – le case editrici inglesi, anche quelle progressiste, rifiutavano i suoi manoscritti: guai a urtare la suscettibilità di Stalin! Ma Orwell non si arrese. Con tipico understatement britannico se ne usciva con frasi di questo genere: “c’è qualcosa di sbagliato in un regime che, di anno in anno, necessita di una piramide di cadaveri.” Era il 1940, e Churchill tendeva la mano a Stalin, dopo che quest’ultimo si era accordato con Hitler per spartirsi la Polonia.

Fortunatamente, la Gran Bretagna aveva potenti anticorpi: il liberalismo è nelle corde più profonde dell’animo inglese. A conflitto concluso il partito laburista avrebbe scelto, senza esitare un istante, il campo occidentale. Così Orwell uscì dall’isolamento. Ma nel resto dell’Europa, laddove c’erano forti partiti comunisti, non ebbe una gran fortuna. Un articolo di Vittorio Valenza apparso su Critica Sociale ricorda la celebre stroncatura di 1984 ad opera di Togliatti, il quale, sprezzantemente, definì Orwell un “poliziotto coloniale”; un calunniatore del paradiso sovietico, un giornalista al servizio della “cultura borghese, capitalistica e anticomunistica”.

Nulla di più falso. Orwell, anticomunista democratico, rimase sempre nell’alveo del socialismo europeo. Militò nel partito laburista britannico come indipendente: era uno spirito libero, e non si piegò mai a compromessi umilianti. Ma, agli occhi dei suoi denigratori, si era macchiato d’una colpa imperdonabile: aveva denunciato le aberrazioni del comunismo sovietico. Che non erano né pecche, né deviazioni marginali né errori riconducibili a una personalità perversa: erano, per dirla con Nenni, tare sistemiche, congenite. Orwell smascherò il gran inganno: la casta degli apparatchiki sovietici viveva in un mondo dorato rispetto agli operai e ai contadini tanto idolatrati. Dire queste cose era un’eresia inconcepibile per gli ammiratori di Lenin e di Stalin. Ma Orwell fu sempre severo nei confronti degli intellettuali radical-chic, compagni di strada dei “cattivi maestri” di turno, nonché seguaci acritici dell’utopia all’ultima moda. Perché in così tanti si erano fatti abbindolare dal mito della palingenesi violenta? Non poteva capacitarsi, lui che era immune dalle schizofrenie politiche del suo tempo. Ma non faceva sconti neppure ai dirigenti di partito e ai sindacalisti della sinistra democratica che, a suo dire, si erano imborghesiti e coltivavano il loro orticello.

Orwell era, lui sì, il paladino della terza via. Credeva, semplicemente, nella pari dignità di tutti gli esseri umani. Stupende le pagine che ha scritto contro le storture di quel capitalismo sfrenato e rampante che aveva gettato milioni di individui sul lastrico, generando il malessere sociale sfruttato ad arte dai demagoghi reazionari Mussolini e Hitler. Nel 1939 si espresse senza mezzi termini: “nello stadio di sviluppo industriale che abbiamo raggiunto, il diritto alla proprietà privata significa il diritto di sfruttare e torturare milioni di esseri umani, nostri fratelli.” Ma rimase sempre un riformista a tutto tondo, innamorato della giustizia e della libertà: con la rivoluzione armata si sarebbe passati dalla pentola alla brace.

Tutta la sua opera è l’espressione di una profonda rivolta morale, oltreché politica, contro il colonialismo e le sue guerre di rapina; contro la povertà che umilia l’uomo abbassandolo a una condizione bestiale; contro il totalitarismo che annulla le conquiste della civiltà liberal-democratica. Colonialismo, povertà e totalitarismo: ecco le tre ossessioni, i tre filoni intercomunicanti nella produzione orwelliana. Il suo primo incontro, traumatico, con l’ingiustizia avviene in Birmania. Orwell si è arruolato nell’Indian Imperial Police. È un ottimo impiego, ma non resiste: il suo animo si ribella a ciò che vede. Ben presto matura la decisione che gli cambierà la vita: rifiuta la carriera sicura; taglia i ponti con l’ambiente piccolo-borghese da cui proviene; si mette contro i poteri forti del suo tempo. Uno dei racconti più illuminanti sull’abiezione del colonialismo d’ogni tempo e luogo è “Shooting an elephant”. Orwell, con la maestria del grande narratore, racconta un episodio apparentemente banale: l’uccisione di un elefante impazzito di fronte a una folla mormorante di indiani, sudditi loro malgrado di Sua Maestà britannica. Un affresco che ci restituisce un’atmosfera plumbea, trasudante l’odio sordo di chi è sottomesso e l’arrogante senso di superiorità di chi comanda; è, questo, il pervertimento morale che l’amministrazione coloniale produce in chiunque ne faccia parte o ne tragga un qualche vantaggio. Orwell capisce che il riformista autentico non può tenere i piedi in due staffe: chi non combatte l’ingiustizia – l’ignavo, l’indifferente –, ne è corresponsabile insieme all’aguzzino.

Orwell non rinuncia solo a una vita agiata. Sceglie la povertà. Vivrà per qualche tempo come un vagabondo, un barbone senza tetto. La sua esperienza, raccontata in Senza un soldo a Parigi e Londra (1933), lo avvicinerà a quella parte dell’umanità caduta in disgrazia, abbandonata anche dai dirigenti della sinistra ufficiale, vicini emotivamente agli operai e non a chi appare quasi subumano, feccia sociale da eliminare (l’eugenetica, non dimentichiamolo, fiorì anche nella sinistra di matrice illuministica e positivistica). In quegli anni Orwell si getta a capofitto nelle lotte per l’emancipazione sociale in Gran Bretagna. La sua straordinaria capacità di scrittura è un’arma micidiale, temutissima dai conservatori. La strada per Wigan Pier (1937) appartiene a quel filone saggistico che risale al classico engelsiano La condizione della classe operaia in Inghilterra. Orwell, nato borghese, vivrà per qualche tempo insieme ai minatori di Wigan Pier, con i quali condividerà i pasti frugali, le speranze, le miserie e le fatiche. Il resoconto che ne scaturisce è uno squarcio realistico sulla vita grama dei minatori nel cuore della più grande potenza coloniale del tempo.

Orwell scoprirà il male totalitario nella Guerra civile spagnola, cui partecipò in veste di giornalista combattente. Il suo reportage Omaggio alla Catalogna (1938) è una delle più lucide analisi dell’abiezione staliniana: saranno i seguaci di Stalin, in nome del principio ‘nessun nemico a sinistra’, a far cadere la Repubblica, torturando e fucilando anarchici, trotzkisti e socialisti riformisti. La fattoria degli animali e 1984 non sarebbero mai stati concepiti senza quell’esperienza traumatica. Per Orwell fu un dramma doloroso, che tuttavia gli aprì gli occhi: vide all’opera lo Stato poliziesco, la calunnia sistematica che falsifica la storia, le sedute di odio feroce, il fanatismo ideologico. Da quel momento, scelse il socialismo democratico e dichiarò una guerra senza quartiere ai seguaci del totalitarismo, rosso o nero che fosse.

Il socialismo di Orwell è in sintonia con i valori laici e illuministici della civiltà occidentale. Un socialismo che rispetta il pluralismo e i diritti universali dell’uomo. Togliatti aveva ragione su un punto: Orwell era il figlio orgoglioso della borghesia illuminata: per lui la libertà era un valore inalienabile, che nessuno poteva sopprimere in nome di un’utopia, neppure la più nobile. L’uomo nasce spesso in catene e proprio per questo il suo impulso più potente è verso la libertà, diceva Marx. Ma la libertà non è borghese: appartiene all’umanità che alberga in ciascuno di noi, alla nostra essenza di animali sociali che hanno abbandonato uno Stato di natura ferino. L’inganno del comunismo è nell’aver sostituito alle vecchie catene dello sfruttamento capitalistico quelle dell’autoritarismo più disumano che la storia moderna abbia conosciuto.

Orwell introiettò il valore della tolleranza e l’ideale della libertà di coscienza germinati nell’humus della cultura britannica ben prima che i philosophes francesi apparissero sulla scena e ben prima che la Rivoluzione francese ponesse fine all’assolutismo con l’orrore della ghigliottina. Eh, già: i valori e gli ideali della civiltà liberale! Gli epigoni di Togliatti e Stalin li riconosceranno solo obtorto collo, con decenni di ritardo.

Orwell era nato in una terra di antiche libertà: la Monarchia inglese è stata la meno sanguinaria in Europa – il primo barlume di costituzionalismo, con la Magna Charta che limita i poteri assoluti del sovrano e codifica il principio dell’habeas corpus, risale addirittura al Medioevo. Non a caso l’Inghilterra è la patria di John Locke, padre del liberalismo. Ed è la culla dell’anglicanesimo, la più aperta e libertaria tra le confessioni protestanti. La Chiesa anglicana è sempre stata aliena dall’intransigenza dottrinaria e dalla durezza luterane che impregnarono tante coscienze nel mondo germanico.

Orwell crebbe e maturò in quel sostrato politico-religioso, distante anni luce dagli eccessi verbali, dalle contrapposizioni frontali, dagli odi di partito. Non poteva diventare un marxista acritico, uno così. Del resto, il socialismo britannico è quasi interamente riformista fin dalle origini: si pensi alla stupenda tradizione delle Trade Unions e della Fabian society. Un lascito straordinario di cui gli europei dovrebbero esser grati alla Gran Bretagna.

Ma Orwell aveva anche un carattere British tutto pervaso da un senso innato del decoro – la “commondecency” –, qualità morale prima ancora che politica. Di qui l’allergia alle astrazioni ideologiche e ai voli pindarici; di qui l’inclinazione alla tolleranza, l’avversione per i furori ideologici, la repulsione per le ingiustizie e le prepotenze. La common decency consente di riconoscere il sopruso immediatamente, con l’intuito. Una tortura è una tortura. Questo dice il senso comune, che coincide col buon senso. Non c’è sofisma che possa offuscare tale elementare verità. Del resto, anche Churchill, conservatore della peggior risma e colonialista convinto della missione civilizzatrice dell’uomo bianco, alla fine non riuscirà a stringere un patto con la Germania hitleriana. Meglio perdere l’amato impero che darla vinta alla barbarie nazista.

Ora capiamo perché Orwell inorridisce in Spagna. Reagisce d’istinto di fronte alla violenza brutale e insensata degli stalinisti. A prescindere da ogni riflessione teorica. Non si fa incantare dal machiavellismo di bassa lega imperante in quel tempo folle. “La rivoluzione non è un pranzo di gala” – tutti i comunisti rivoluzionari, pappagalli compiaciuti di sé, ripetevano quel truce slogan di Lenin. No, la coscienza di Orwell insorgeva nel sentire queste bestialità: la commondecency era il suo grillo parlante. Qualunque cosa fosse il socialismo, era tutt’altro da quel macello, frutto di un’ideologia imperniata sull’odio e sulla vendetta di classe. Un’ideologia che reclamava le sue vittime sacrificali sull’altare del progresso. Solo accatastando pile di cadaveri e facendo scorrere il sangue a fiotti, l’umanità sarebbe stata purgata dal peccato originale della proprietà privata. No, Orwell non poteva concepire che la civiltà europea si suicidasse in quel modo.

Il socialismo liberale era la sua stella polare. E quindi non poteva essere un dottrinario: i dogmi gli davano l’orticaria. Rifiutò sempre ogni cieca ortodossia. Cercò di creare un antidoto al veleno delle utopie totalizzanti: ripeteva, inascoltato, che la perfezione è impossibile su questa terra. L’esercizio del dubbio, il diritto di critica, e il dovere di auto-critica, furono per lui ragioni di vita. Tant’è che, pur predicando incessantemente la necessità dell’eguaglianza, non smise mai di elogiare l’intellighenzia liberale dell’Ottocento, sale della civiltà europea. Il suo culto della libertà era tale che un giorno giunse a dire: “la vera distinzione oggi non è quella tra conservatori e rivoluzionari bensì tra individui autoritari e spiriti libertari”. Era il 1948. Parole sacrosante, e tuttora attuali.

Orwell era un socialista tutto d’un pezzo. La sua cifra era la coerenza. Non smise mai di battersi per la giustizia e per la libertà, senza trarne mai alcun vantaggio personale. Visse in povertà pagando di persona le sue convinzioni. I disagi delle sue scelte di vita lo minarono nel fisico, condannandolo a una morte prematura, a soli 46 anni, nel 1950. Un socialista d’altri tempi.

Pubblicato il 04-01-2014 su Avanti!

(5 gennaio 2014)

 

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