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Leo Alati

Nostalgia di Bettino

“Ho fatto tutto di corsa in una specie di frenesia che mi bruciava l’animo. Ho così commesso anche molti errori. E tuttavia, quello che io penso è che nella mia vita ho reso grandi servigi all’Italia. La storia, se non sarà scritta da storici di regime, dirà quanto questo è vero. Certo non merito di essere condannato a morire lontano dal mio Paese”. Così Bettino Craxi rispose a una mia domanda se si pentiva dei suoi errori e se aveva la tentazione di tornare in Italia.

A rileggere quella risposta, vent’anni dopo, provo un sentimento strano, di nostalgia per l’orco. Soprattutto ora, in questo vuoto di leader e di governo che dura da troppi giorni. Craxi era allora ricoverato al Policnico Taoufik di Tunisi. Era già un Craxi postumo, che ragionava col distacco della storia, giudicandosi in una specie di Spoon river. Aveva un piede, non per modo di dire, già nella fossa. Temeva per l’Italia, riteneva il bipolarismo “un’offesa alla democrazia e una rappresentazione falsa della reale società politica”. Sosteneva che gli italiani in maggioranza fossero di centro-destra e Berlusconi fosse il vero collante di quello schieramento che altrimenti sarebbe andato “in frantumi”.

Considerava D’Alema il politico caratterialmente più vicino a lui, figlio come lui della partitocrazia. E si divertiva a notare che “quando D’Alema alza la voce gli danno del miglior Craxi”. Sottostimava l’effetto Di Pietro in politica e considerava Fini “un vuoto incartato”, in cui “le forme prevalgono sulla sostanza”.

Pubblicai l’intervista su un settimanale che allora dirigevo, Lo Stato, titolandola: Intervista al miglior politico degli ultimi vent’anni. Confermo il giudizio, anzi il tempo accresce e non diminuisce la sua statura. Spiaceva dirlo a uno come me, che non è mai stato socialista o di sinistra. Uno che combatteva l’arroganza e la corruzione del potere. Uno che giudicava nel complesso necessaria l’inchiesta Mani Pulite. Ma a Craxi si deve il governo più duraturo della prima repubblica, che coincise col periodo di maggior vitalità, ottimismo e benessere del nostro paese e di gran prestigio internazionale. Craxi mise in crisi il consociativismo catto-conf-comunista, con supporto di laici e bella stampa; tentò di modernizzare la sinistra e di sdoganare la destra, fuoruscendo dalla pregiudiziale antifascista dell’arco costituzionale; varò il nuovo Concordato e la nuova scala mobile, pensò a una grande riforma istituzionale che riportasse al centro della politica la decisione, l’elezione diretta del leader, e alimentò la revisione storica, la passione nazionale e risorgimentale, il socialismo tricolore. Sarà stata mitizzata, ma Sigonella fu un mirabile esempio di sovranità nazionale; che forse costò caro a Craxi e ad Andreotti.

Craxi si circondò non solo di nani e ballerine, ma anche di intelligenze politiche affilate, di prim’ordine. Ciò non diminuisce di una virgola le sue responsabilità nell’Italia del malaffare, della partitocrazia e delle tangenti. Lo Statista aveva anche un suo doppio, Ghino di Tacco, o il Cinghialone come lo chiamava allora Feltri. Non fu lui a introdurre la corruzione politica e il finanziamento losco dei partiti in Italia, già in uso grazie alla sinistra democristiana sin dagli anni ’50 nel parastato e i primi socialisti affaristi di potere degli anni sessanta. Lui cercò di non far schiacciare il Psi nella morsa tra il Pci che godeva di sostegni anche economici dell’est e aveva la rete delle coop, e della Dc che gestiva potere e sottopotere.

Craxi pensò uno Stato autorevole che libera il Mercato ma che conserva il primato della politica sull’economia; che apre alla religione e alla Chiesa senza essere clericale: Craxi capì che il problema non era togliere la parola ai preti ma dare prestigio allo Stato e autorevolezza alla politica. È il vuoto di politica e di decisione che porta a trovare supplenze alla politica, dalla magistratura alla finanza, dalla chiesa alle ingerenze internazionali. Craxi era per un’Italia laica ed emancipata ma non avrebbe ridotto la sinistra a difendere gay, aborti ed eutanasie, zingari, tossici e clandestini. Con Craxi avemmo l’unica efficace sinistra di governo che ha prodotto la repubblica italiana. Certo, un po’ brigante, affarista e malandrina. Non idealizziamo, non dimentichiamo, vediamo tutti i lati.

È vero che ci fu col socialismo craxiano una pianificazione dei pedaggi da pagare alla politica. Ma la politica non si può giudicare solo con la morale e col codice penale; si giudica soprattutto dagli effetti che produce sulla vita del Paese e dei suoi cittadini, sul ruolo che assume la politica rispetto allo sviluppo, e i costi della politica vanno rapportati ai benefici che produce. E poi, i cretini incompetenti fanno più danni dei ladri ma capaci.

Quando emerse Renzi, molti a destra, ci illudemmo che potesse essere un nuovo Craxi. Più loquace, più brillante ma meno autorevole, meno legato alla storia italiana. Ma pur disponendo, a differenza di Craxi, di un partito di maggioranza, Renzi non si rivelò all’altezza del compito e alla fine restò vittima di una sinistra che era riuscita a mortificare ma non a modificare.

Craxi resta il nostro ultimo grande statista. Certo, fu un professionista della politica ma daremmo cento dilettanti grillini allo sbaraglio per avere uno come lui.

A vent’anni dalla sua morte, l’anno prossimo, meriterebbe una via a Milano e Roma, non solo ad Hammamet.

Articolo di Marcello Veneziani pubblicato su Il Tempo 4 maggio 2018

 

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