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Leo Alati

“Stavolta con il laser ma ho respinto di nuovo il cancro

Mimmo Cándito, storica firma della Stampa, racconta cure, speranze e il ruolo della sanità pubblica nella lotta al tumore

 

In 40 mila hanno voluto rispondermi, quando, tre mesi fa, ho raccontato d’aver scoperto che nel mio polmone s’era insediato un tumore. 40 mila è un numero enorme, 40 mila uomini e donne che mai erano stati parte della mia vita e che però hanno voluto scrivermi o comunque inviarmi un messaggio, lettere, commenti, telefonate, collegamenti sui social. Sarà pure un segno del tempo d’oggi, un tempo in connessione permanente, ma io l’ho vissuta come una solidarietà civile che, proprio per questa sorprendente disponibilità anonima a esser parte, a condividere, ad assumere in qualche modo una responsabilità, ha fatto sentire come un obbligo dovuto la volontà di non cedere. La mia storia non era più soltanto una storia mia. Per questo, ora, dopo 3 mesi, racconto qui che quel tumore è stato ablaso. Non sono «guarito», però quella piccola massa nera che aveva occupato una parte del mio polmone, e lo divorava, e cresceva giorno dopo giorno, ora non c’è più.

 

“Io, inviato sul fronte della guerra al cancro”  

Ma non è un miracolo, tre mesi non sono affatto la storia di un percorso terapeutico eccezionale. Sono soltanto il tempo che ha segnato per me, ma può esserlo per tutti, una realtà certa: che il cancro non è un destino obbligato di morte; perché, oggi, ci sono tutte le condizioni per potersi sottrarre a quel destino, che ancora da molti viene invece vissuto come inevitabile.  

 

Un futuro di attesa

Chi ha un tumore sa che il proprio futuro vivrà sempre di attesa. Anche quando il tumore è stato contenuto, rimesso, eliminato, sempre lascia di sé il segno d’una stimmate: perché ciò che è già stato può sempre tornare. Ma non è affatto scontato che debba tornare. E comunque, è un dovere verso se stessi, prima ancora che verso altri, far di tutto perché i controlli, l’avvedutezza d’uno stile di vita, e la straordinaria energia mentale che nasce dalla forza della volontà, riducano fin quasi ad annullarle le possibilità d’una recidiva. 

Un primo tumore, io lo avevo scoperto ad agosto del 2005, nel polmone sinistro. La coraggiosa sperimentazione d’un oncologo americano ne aveva consentito alla fine l’asportazione chirurgica, anche se il verdetto iniziale era stato tragico, di «nessuna possibilità di sopravvivenza». In questi 10 anni che sono seguiti, ho rispettato rigorosamente il ciclo dei controlli, sempre negativi; poi però, a primavera di quest’anno, l’ultima Pet e la successiva biopsia rivelavano la presenza nel polmone destro - il solo rimastomi attivo - di un «adenocarcinoma con estesi aspetti di crescita lepidica (second primary Nsclc)». 

 

Il cancro, di nuovo

Era di nuovo il cancro. Ma di fronte alla commiserazione che sentivo accompagnare ogni mio passo, come se già ne subissi un verdetto di morte annunciata, avevo pubblicato in queste pagine un racconto che esortava a guardare al cancro come una malattia, e non come una condanna. Il racconto - e così l’ha voluto il giornale - doveva aiutare a creare coscienza che non bisogna aver paura a parlarne, e che rimuovere la realtà con il silenzio soffoca magari l’angoscia, ma è soltanto una povera, inutile, benda sugli occhi: il cancro si affronta e si lotta, e ogni briciolo, il più minuto, di energia psichica dedicato a questa lotta è un apporto vitale alla terapia che l’oncologo prescrive. 

 

Bombardato con il laser

Per questo mio nuovo tumore, l’oncologo inizialmente ha escluso l’asportazione chirurgica, viste le mie condizioni già compromesse, e ha suggerito, in sostituzione, un intervento di radioterapia. Mi hanno applicato un «trattamento radioterapico stereotassico a scopo ablativo, con somministrazione di una dose Focolaio Totale di 50 Gy/5 frazioni (isodose 80%) con tecnica a intensità modulata volumetrica e controllo con cone-beam Ct quotidiana (Igrt-Vmat)». In parole nostre, hanno bombardato quella massa nerastra con un potentissimo raggio laser, fino a distruggerla. In America 10 anni fa, avevo avuto bisogno di 45 sedute di radioterapia, a parte la chemioterapia, mentre ora - grazie all’evoluzione delle tecnologie terapeutiche e alla potenza impiegata - sono state sufficienti soltanto 5 sessioni, durissime, ma soltanto quelle. 

Tutto qui. Il tumore è stato cancellato, e ogni tre mesi valuteremo che cosa stia accadendo di quanto è rimasto nel mio corpo; tra qualche tempo non breve, poi, potrò sapere anche se io sia guarito. 

Perché il cancro è anche una sfiga: il mio primo tumore era stato causato, molto probabilmente, da una contaminazione da uranio impoverito, subita in qualcuno dei territori in guerra - l’Afghanistan, l’Iraq, l’Iran, la Somalia, ecc - dove ero stato a raccontarne le storie. Siamo stati in molti giornalisti laggiù, ma, per quanto ne sappia, abbiamo sviluppato un tumore soltanto tre di noi: oltre me, una mia compagna di quei viaggi, Maria Laura Avignolo, argentina, operata poi felicemente a Parigi, e un reporter tedesco, invece morto. Che, poi, è quanto è accaduto a tanti soldati italiani in Kosovo: alcuni sono morti per tumore, ma molti continuano a vivere i loro giorni, sia pur con qualche angoscia e molte attenzioni. 

 

Stavolta in Italia

La sfiga è un accidenti dannato. Ma le attenzioni, invece, sono un obbligo dovuto: e le attenzioni vogliono dire, soprattutto, controllo e stile di vita. Questo mio racconto di oggi vuol ribadire che io, e tanti come me, sopravviviamo al tumore grazie all’apporto d’una diagnosi precoce; perché il tempo è una variabile rigidissima, e bisogna saperle cedere ogni nostra disponibilità, senza timori né pregiudizi. 

 

Ma in giorni come quest’ultimi, quando il dibattito sulla sanità pubblica incrocia drammaticamente forze politiche ed equilibri finanziari, questo racconto di speranza e di fiducia si deve chiudere con una notazione che può aggiungere ulteriori riflessioni a quel dibattito, perché il mio caso - il mio tumore - alla pari di tanti altri tumori diagnosticati nei controlli, è stato seguito esclusivamente dal servizio sanitario nazionale. A tracciare la diagnosi precoce è stato il professor Giorgio Scagliotti, primario di oncologia polmonare all’ospedale San Luigi, e ad applicare la terapia laser è stato il professor Umberto Ricardi, primario di Radioterapia all’ospedale Le Molinette. Non intendo dire che siano reparti, o medici, di eccellenza; magari lo sono anche, e ne hanno riconoscimenti a livello internazionale, ma ciò che conta è che essi operano nel servizio pubblico, che costituisce comunque, pur con le sue contraddizioni e al di là dei singoli nomi coinvolti, un legittimo orgoglio civile del nostro Paese.

Articolo di Mimmo Candito pubblicato su La Stampa il 17/8/2015)

 

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