Responsabile

Leo Alati

Menu vegano a Torino

Quando decidono cosa dobbiamo mangiare

 

La nuova religione che si pratica a Torino è il veganesimo o come diavolo si chiama. Proviamo a smontarlo con le loro stesse armi, dunque non seguendo il metodo scientifico (i fanatici non ci sentono per questo orecchio), ma attraverso le loro stesse bufale ideologiche.

Insomma proviamo a trattare Appendino&Co. come quei bambini piccoli che credono agli orchi. Non diremo loro che gli orchi esistono solo nelle favole, ma cercheremo di convincerli che sono stati stecchiti dal mago merlino.

Andiamo ai fatti. Al rientro dalle vacanze estive, 25 mila incolpevoli studenti delle elementari torinesi, potranno «godersi» una bella mensa vegana. Una volta al mese sarà servito un pasto interamente privo di proteine animali.

Il menù prevede penne al pomodoro, lenticchie in umido, insalata di carote, pane e ananas il secondo venerdì del mese. «Ci sarà un giorno annuncia l’assessora ai Servizi educativi, Federica Patti in cui tutto il pasto sarà senza proteine animali». «Ma per i primi piatti assicurano dall’assessorato i bambini continueranno ad avere l’opzione parmigiano».

L’iniziativa, si legge nei giornali, «è stata pensata dall’amministrazione comunale per diversificare l’offerta delle mense scolastiche e proporre ai bambini nuovi modelli alimentari, magari diversi da quelli a cui sono abituati in famiglia».

Uhm che buona idea, questa di proporre modelli diversi da quelli a cui si è abituati in famiglia, c’è solo da chiedersi per quale motivo fermarsi solo al cibo. Avremmo un’ideuzza anche sulle preghiere prima di andare a nanna, o sullo sport da far praticare ai giovani virgulti.

 

Per le persone dotate di cervello (animale) la decisione della giunta Appendino è talmente assurda e antiscientifica che si qualifica da sola. Insomma ci sono centinaia di studi che dicono come le proteine animali siano necessarie. Così come basterebbe avere un briciolo di cura e attenzione per i diritti di libertà dei singoli, per inorridire di fronte al menù di Stato.

La cosa, è bene ricordarlo, va di pari passo con il divieto che i nostri parlamentari vogliono introdurre di portarsi il panino da casa. Insomma nessuna libertà di scelta. Cioè in funzione della libertà di scelta dei vegani di non nutrirsi con gli animali (cosa legittima) si obbligano tutti a non nutrirsi di animali. Il prossimo passo quale sarà?

Ma come abbiamo detto in premessa, la vicenda è assurda anche secondo i criteri degli stessi fenomeni che l’hanno ideata. Seguiteci. Usando la loro stessa retorica antisviluppista, green, complottista, viene da chiedersi come la città di Torino possa sopportare lo scandalo dell’ananas.

Sì, proprio quel frutto proibito inserito nel menù vegano del venerdì.

Per essere vegan friendly, l’ananasso certamente lo è, ma qualcuno sa i «disastri» ambientali che sta cagionando? Per molto meno alcune scuole, sempre piemontesi, hanno boicottato la loro Nutella che si ostina a usare l’olio di palma (che è invece controllatissimo). Ma questo è un altro discorso.

 

Torniamo all’ananas. Non è difficile intuire che si tratta di un frutto (ottimo per carità) che non si produce nelle Langhe, ma neanche in Piemonte, e neanche in Italia, e neppure in Europa.

Si produce solo in zone tropicali, e la gran parte di quello che mangiamo in Italia proviene dal Centro America. Se ne fa molto anche in Asia, ma se lo mangiano in loco.

Ecco la prima obiezione: come la mettiamo con i vostri cugini del chilometro zero? Ma le domande che dovremmo porre a questi fissati sono molte altre:

1) Quanto inquina questo sfizio che vi fate servire sulle mense, con un tragitto di almeno diecimila chilometri?

2) Perché ve la prendete con la Nutella, che è un orgoglio delle vostre zone, ma è fatta da materia prima importata, e poi la sostituite con l’ananas?

3) Sapete che il maggiore produttore mondiale è il Costa Rica e che le agenzie agricole mondiali dicono che lo sviluppo della coltivazione di questo frutto a partire dagli anni 2000 (300 per cento l’aumento della produzione) è stato «devastante» per il territorio (http://www.worldatlas.com/articles/top-pineapple-producing-countries.html). Secondo produttore è il Brasile, dove spadroneggia la multinazionale Del Monte.

4) La clava della deforestazione e del consumo di acqua questa volta non vale.

Notate bene: sono tutti argomenti che in genere utilizzano i vegan-fissati-ambientalisti-chilometristizero-antiglobalisti-antimultinazionalisti e scemate varie. Perché sull’ananas non vale?

Tutti questi argomenti diventano evidentemente irrilevanti se servono a sostituire una sana bistecca di fassona piemontese.

Ma l’ultimo capitolo è il più clamoroso. I vegani ci rompono i venerdì per due ordini di motivi.

Il primo è che le proteine animali farebbero male all’uomo e il secondo è il rispetto dei diritti animali. Entrambe le circostanze valgono per la coltivazione dell’ananasso.

Vi citiamo un’inchiesta di un giornale progressista inglese, The Guardian: Fernando Ramirez, uno dei più importanti agronomi alla National University’s toxic substances institute, spiega il ciclo agrochimico per realizzare un frutto eccellente.

«Le culture di ananas necessitano di grandi quantità di pesticidi, circa 20 chili di principi attivi per ettaro e per ogni ciclo. Il terreno viene così sterilizzato, eliminata la biodiversità. Da 14 a 16 diversi tipi di trattamenti sono tipicamente richiesti, e alcuni devono essere ripetuti più volte. Essi utilizzano sostanze chimiche che sono dannose per l’ambiente e gli esseri umani. Queste sostanze sono legali in Costa Rica, ma includono alcuni principi attivi che nel resto del mondo sono molto controversi».

Noi vorremmo essere liberi di mangiare ananas e bistecche, pesce e kiwi. Vorremmo anche essere liberi di poter evitare di mangiare tutti questi elementi. Vorremmo poter rispettare anche i vegani.

Ma non un’amministrazione pubblica che decida cosa sia buono o cattivo per conto nostro. Abbiamo fatto battaglie per la laicità dello Stato, stiamo perdendo la guerra sulla nuova religione di Stato: l’alimentarismo.

Nicola Porro, Il Giornale 28 luglio 2017

 

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