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Lega Nord, il medioevo barbarico della politica

 

Questi barbari alla fine a Roma sempre l'oro cercano

La Lega sta affondando tra scope e spiate, denunce ed espulsioni, minacce e vendette. Ma che partito è stato la Lega? O meglio: perchè stupirsi di quel che sta accadendo visto la natura della Lega? Il movimento creato da Bossi e da alcuni amici al biliardo del bar di Varese è stato quanto di più atipico sia mai proliferato nella storia d’Italia. Nato quasi per burla negli anni ottanta, nel 1987 disponeva di un solo deputato, certo Leoni, pacioso e barbuto gentleman con tanto di farfallino, e di un solo senatore, certo Bossi, che dicevano ne fosse il capo. Sembrava uno dei tanti striminziti movimenti localistici dei quali non era estranea la vita politica italiana.

Nato e destinato a svanire di lì a poco tempo. Invece la Lega s’imbatté nel più grande sommovimento politico del quale è stata oggetto l’Italia e cioè l’89 europeo, con le sue conseguenze su scala nazionale. La fine delle ideologie e delle contrapposizioni politiche, e dunque anche del voto a naso turato, assieme alla pressione fiscale che da metà degli anni ottanta (diciamo dal decreto Visentini col “reddito presuntivo”) iniziava a farsi sentire soprattutto al nord, diedero a quella lista locale un’imprevedibile dimensione politica. I lumbard che inveivano contro “Roma ladrona” e invitavano i nordisti alla ribellione fiscale allargarono il loro spazio d’azione al Veneto e al Piemonte e nel 1990 dilagarono ovunque al Nord, espandendosi anche in Emilia, sommando alla rivolta fiscale la paura dell’immigrazione.

Nel 1992 cinquanta leghisti entrarono in pompa magna in Parlamento. Oltre al Bossi emergeva un curioso esemplare di intellettuale qual’era il Miglio, col suo progetto di rivoluzione federalista, che contribuiva ad abbellire un movimento di stampo vagamente primitivo. Barbaro, come si dice oggi, composto quasi esclusivamente di esponenti raccattati a caso tra i comuni nordisti, privi di esperienza politica, tranne un paio che avevano deciso di cavalcare la nuova tigre padana per calcolo di successo. Un movimento senza classe dirigente, nel quale emergevano senza manifestare alcuna propensione ad eccellere politicamente, certa Irene Pivetti e certo Bobo Maroni.

Poi Tangentopoli e la crisi definitiva della cosiddetta Prima repubblica e, a seguire, il trionfo di Berlusconi, diedero alla Lega la possibilità di divenire, nel 1993, il primo partito del nord e poi, dopo la fondazione di Forza Italia e il successo del 1994, un partito di governo. Questo nella più totale confusione politica della quale il suo leader era l’incarnazione. I leghisti si trovarono a rivendicare a fasi alterne la secessione e il federalismo, a cavalcare il berlusconismo e l’antiberlusconismo, a fondare il parlamento del nord e a partecipare al parlamento italiano, a vantarsi dell’identità padana (una nazione mai esistita nella storia d’Italia) e a partecipare al governo della repubblica italiana, a scambiare il “Va pensiero”, che nell’opera di Verdi gli ebrei cantano per difendersi dagli invasori babilonesi, come l’inno dei supposti padani, a vestirsi di verde ed innalzare l’acqua del dio Po con la rituale ampolla come segno distintivo della padania, che in questo caso dovrebbe dunque coincidere con la pianura padana, e a vagheggiare una nazione che col tracciato del Po non c’entra nulla, ad inventarsi una sorta di legge sul federalismo che è in realtà più centralistica della riforma del titolo V della Costituzione e poi a vantarsi di un federalismo fiscale che è una presa in giro perché consiste solo nell’aumentare le imposizioni fiscali da parte dei Comuni.

Come poteva reggere un partito così? Se vi aggiungiamo una sorta di organizzazione monarchica, con un capo che, benché malato, doveva restare al suo posto, come i re del medioevo che venivano mostrati sul seggiolone anche se privi ormai di intelligenza, e con editti di radiazione per reati di pensiero, perpetrati a man bassa in mezza Italia, che hanno provocato ira e volontà di vendetta ovunque, ben si capisce la situazione attuale. Nella cartella “The family” c’è tutta la fisionomia del partito del re. E non a caso, come nelle monarchie, il figlio del re, Renzino detto Trota, era il candidato alla successione. E la famiglia reale era da tutelare in ogni modo. Un partito senza congressi, senza selezioni, senza democrazia perché avrebbe dovuto durare a lungo? Un partito monarchico finisce con la morte della monarchia.

Per questo dubito che la faccia presentabile della Lega, Maroni, Tosi, Zaia, riescano a resuscitarlo. Difficile immaginarli repubblicani e nel contempo ministri, governatori e sindaci al tempo della monarchia assoluta. Difficile credere che Belsito, uno che è riuscito a far sì che la Tanzania respingesse i lumbard, fosse a loro sconosciuto (da buttafuori di discoteca a vice ministro), difficile pensare che nessuno conoscesse i vizi di Renzino, con le sue camiciole verdi con scritto il Trota, difficile immaginare che la Nera (Rosy Mauro) sia diventata un mostro negli ultimi due mesi.

Credo che il rischio è che da Bossi si passi a Calderoli e da qui (magari per nuove vendette, come quella davvero sconcia, consumata dall’autista del Trota), attraverso gli epurati Belsito e Rosy Mauro, si passi anche ai rinnovatori. Con un crescendo sul modello della fine dei partiti della cosiddetta prima Repubblica. Attenzione, perché questi sono processi inevitabili. Nessuno è disposto a farsi epurare da un epuratore compromesso. E un partito non sopravvive al suo sterminio.

Pubblicato sull'Avantionline

(15 aprile 2012)

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