La legalità di
tutti
Giuseppe Romeo
C'è una sorta di prossimità nel
percepire la sicurezza e, quindi, la
legalità quale aspetto complementare, come
una categoria politica, un valore a cui si
affidano una miglior qualità, un ordinato e
giusto andamento della vita civile.
Di per sé non è una sorpresa. Una simile
prospettiva rientra nel novero delle
funzioni di uno Stato di diritto, nelle più
intime attribuzioni e garanzie che questo
deve offrire al cittadino per poter disporre
della pienezza dei diritti - civili,
politici e sociali - che a questi gli sono
riconosciuti. Tuttavia vi sono alcune
riserve sostanziali che non possono non
essere espresse e che, in effetti, assumono
un valore che non ha limiti di confine.
Riserve che si diluiscono man mano anche
nella nostra società. Una società, quella
italiana, dove il senso di legalità sembra
avere più velocità, sembra adattarsi a
formule di promozione che sopravvivono
nell’ambito di esigenze diverse superando
gli stessi drammi che lo riportano in vita.
Ora, è vero che in momenti di crisi
riprendere la sicurezza come leit motiv sul
quale concentrare l’attenzione dell’opinione
pubblica può essere funzionale a mettere in
secondo piano problemi sociali altrettanto
sensibili, come la crisi economica,
l’occupazione o le pirandelliane gesta della
politica di salotto se non di altre
“camere”. Ma far si che definire cosa sia
legale o cosa non lo sia, al di là della
legge e dei diritti, sia solo appannaggio di
pochi, o un valore di cui solo alcuni ne
siano i depositari secondo propri modelli di
interpretazione, non favorisce il rispetto
delle norme, non assicura la garanzia dei
diritti, non ne afferma i contenuti.
Oggi l’insicurezza ha assunto lo status di
categoria politica allo stesso modo
dell’economia, o del sociale imponendosi
come uno degli aspetti di cui si parla
frequentemente a livello popolare al punto
tale che l’insicurezza, e l’illegalità,
vengono viste come una delle più
significative forme di ineguaglianza, la più
fragile, la più precaria. Se però questo è
vero, le politiche e le azioni che vengono
rispettivamente decise e condotte non
possono esaurirsi in una sorta di
riduzionistica prospettiva da slogan.
Considerare un fenomeno criminale fine a se
stesso, non riconducendolo all’interno di
dinamiche sociali che lo caratterizzano come
tale, riducendolo, nella sua qualità, ad una
mera questione di numeri da copertina
allargandone lo spettro dell’illegalità
significa porre in essere un’errata
interpretazione delle modalità di condotta.
O, ancora peggio, una parzialità dei
contenuti che si manifesta nella contrazione
di fatto i diritti del singolo da una parte
e indebolendo il sentimento di legalità che
non si compie in comunità che vivono nella
…illegalità. Una contrazione che rischia di
dare luogo a derive poco coerenti con
modelli democratici che non possono
tollerare oligarchie di fatto che si
costruiscono nel sovrapporsi, o nella
competizione, tra poteri dello Stato, per
logiche corporative se non proprio per
opportunità politiche.
Guardando un attimo fuori dalla nostra
finestra, e spostando le tende che ci
impediscono di andare oltre la nebulosa
trasparenza delle nostre convinzioni, la
verità che emerge nelle altre vicine
comunità che affrontano l’emergenza
sicurezza e legalità è che, sia che si
tratti di problemi relativi a conflitti
sociali o di criminalità diffusa o
organizzata, sicurezza e legalità non
possono essere monopolio di nessuno se non
dello Stato in quanto Stato-comunità e non
quale Stato-apparato. Se non si comprende
questa ragione, posta a monte di ogni
principio di …legalità, oltre che di
equilibrio e di giustizia, diventa difficile
riuscire a dare un significato univoco e un
senso a due categorie politiche che non
possono essere abbandonate alle
argomentazioni di improvvisati sacerdoti del
diritto, meno che mai a chi della legalità
ne fa un uso strumentale per affermare
carriere e personalismi. Se così non è, si
rischia - di fronte ad attività che assumono
soprattutto un carattere repressivo e senza
risposte politiche indirizzate a sottrarre
l’individuo dalle lusinghe del crimine o del
conflitto sociale - di rispondere al degrado
delle comunità, alle marginalità sociali e
personali creando i presupposti per altro
degrado e per altre esclusioni. Aggiungendo
degrado su degrado, con azioni che non
riconoscono a chi opera un ruolo di
riequilibrio delle criticità sociali e
personali che rappresentano l’universo umano
nel quale ci si muove.
Ciò che manca, in verità, è la
consapevolezza che se esiste un sentimento
di legalità, prim’ancora che un valore, esso
dipende dalla volontà di edulcorare da
facili protagonismi, da analisi
semplificate, da eclatanti conseguenti
azioni la giusta, incontrovertibile
affermazione di un principio di diritto
prima e di giustizia poi. Il vero rischio,
ancora oggi, come scrissi qualche articolo
fa, è di non riuscire a dare in certe
periferie del Paese della legalità e della
sicurezza un’immagine diversa rispetto
all’offerta della mediazione criminale.
Un’offerta che si rafforza grazie ad una
percezione di uno Stato solo repressivo,
privo di proposte di crescita alternative
per giovani che nel mondo oscuro
dell’illecito sopravvivono ai confini di una
società che divide con facilità, senza
possibilità di recupero, buoni e cattivi. In
questo sopravvive il pericolo di un
disamoramento del cittadino delle nostre
piccole comunità abbandonate da uno Stato
che non si abbarbica, concettualmente, sulle
pendici dei loro monti. Un cittadino
“lontano” che si chiede dove sia la legalità
o cosa sia l’onestà, e qual è il vero
significato da attribuire a simili categorie
non comprendendo, spettatore nel regno del
demerito quale virtù e della non buona
amministrazione, cosa significhi vivere
nella legalità e se legalità vuol dire
possibilità di crescita vera e condivisa
oppure no.
Il sentimento di legalità, sempre citando
quanto già scritto in passato, non si
costruisce in case della legalità o
attraverso altre formule del genere, ma
nella capacità di interiorizzazione del
rispetto altrui e del diritto, del senso
dello Stato che può affermarsi, perché
compreso e metabolizzato se si vuole, solo
nella scuola per i ragazzi, nell’esempio da
parte degli amministratori onesti, in una
giustizia personale e concreta. Il senso
della legalità matura nella capacità di
superare una trappola antropologica di
comodo, nell’aiutare chi cade nel fascino
della strada facile della devianza criminale
aiutandolo a comprendere il valore delle
istituzioni e della vita pubblica, e non
riducendo ogni azione a una sterile attività
repressiva.
Uno Stato che si presenta solo in veste
autoritaria, che non premia i migliori, che
tende ad accomunare genitori e figli in una
sorta di destino biblico comune senza vie di
uscita in una devianza senza fine, non
dimostra una sua forza, ma una debolezza nei
modi e nelle capacità di lotta. Perché, se
proprio di legalità si vuol parlare allora
dovremmo partire da una regola di fondo, un
postulato che è al tempo stesso paradigma di
una società civile:
e, cioè, garantire a
tutti i cittadini, e ai ragazzi del Sud in
particolare, l’esigibilità dei diritti.
Un’esigibilità che deve iniziare dal lavoro,
da un’equa, meritocratica, distribuzione
delle opportunità, da un’aperta
partecipazione alla vita civile, da un
dialogo serio con le Istituzioni fondato
sulla credibilità che vivere onestamente si
può. In un articolo/saggio apparso qualche
anno fa un giornalista calabrese, Antonio
Delfino, in una prospettiva molto singolare
- dal momento che il riferimento era la
propria, la nostra, regione - definiva come
“pane della legalità” ciò che era tutto
l’insieme di movimenti e associazioni che
sulla legalità costruivano il loro fine, il
loro scopo,la possibilità di finanziarsi, e
anche qualche figura emergente per cavalcare
un’onda politica del momento.
Ebbene sarebbe il caso di trasformare le
occasioni di promozione in azioni concrete,
inclusive, per sottrarre i giovani dai padri
che dalla legalità se ne sono allontanati,
offrendo loro l’esempio di una legalità che
vive,che è ragione di vita e non abbandono
alla morte.
(1 dicembre 2012)
|