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Tra neofiti e tecnici

 L'antipolitica sta affondando l'Italia

Fabio Fabbri

Anziché almanaccare sul più verosimile esito del negoziato in corso fra il presidente-esploratore Bersani e i suoi interlocutori, pare a me utile sottoporre ad analisi e a vaglio critico alcuni eventi di primario rilievo, da pochi giorni accaduti e ormai inscritti nella storia parlamentare e politica della Repubblica.
Accendo dunque i riflettori sulla nomina dei Presidenti di Senato e Camera dei Deputati e sui primi loro atti politici ed istituzionali.
Entrambi, Laura Boldrini e Pietro Grasso, sono di prima nomina, privi di qualsiasi esperienza parlamentare e politica e dunque sorgono spontanee alcune osservazioni.
I partiti, che un tempo sceglievano nel loro seno la seconda e la terza carica dello Stato, utilizzando i miglior talenti del loro vivaio (alcuni nomi: Pertini, Ingrao, Iotti, Violante, Napolitano, Fanfani, Spadolini e così via) ora credono di acquisire consenso e popolarità incoronando gli esterni, con una predilezione per i magistrati.
È a ben vedere, la resa all’anti-politica, la confessione della propria impotenza formativa e selettiva, il riconoscimento del buon fondamento delle istanze di rottamazione. I gridi di gioia al cospetto di questa “novità” sono striduli e sinistri, perché specchio dell’auto-delegittimazione. Né mi sembrano meritevoli di elogio le precipitose decisioni di riduzione dei propri emolumenti adottate motu proprio dai due neo-presidenti, anch’esse volte a lisciare il pelo dei nemici della politica.
Queste scelte dovevano comunque essere compiute in sede collegiale, negli organi di governo dei due rami del Parlamento ed essere annunciate solo dopo le rispettive deliberazioni.
Si è invece preferito un proclama di vertice, procacciatore di facile popolarità.
In questa ottica di captatio benevolentiae deve essere visto anche il conclamato rifiuto di utilizzare l’alloggio di servizio: che è invece spesso opportuno per ragioni di sicurezza e per ridurre l’impegno ingrato delle scorte, come rilevò Napolitano quando fu eletto Presidente della Camera.
Non c’è nulla di immorale abitare temporaneamente a Montecitorio o a Palazzo Madama per effetto della carica ricevuta.
Chi si gloria di non farlo, rischia di sconfinare nella demagogia. Insomma, non è tutto oro il nuovo che luce. Ed ha cento volte ragione Aldo Grasso quando censura aspramente la sfida in TV di Pietro Grasso al suo detrattore Marco Travaglio.
La seconda carica dello Stato, criticato aspramente nel corso di una rutilante trasmissione televisiva, non lancia il guanto della sfida da celebrarsi in un rissoso talk show: redige una sobria nota di messa a punto e tutto finisce così.

Non sono, queste, osservazioni, dettate da ostilità pregiudiziale. Ma un po’ di sobrietà nelle esternazioni non guasterebbe. Chiamati inaspettatamente ai vertici delle istituzioni, i neo presidenti farebbero bene a praticare prudenza e misura, nella consapevolezza che la politica è un’arte difficile, che non si improvvisa e non deve essere nutrita di vanagloria.
Ma c’è dell’altro sotto il cielo primaverile del bel Paese.
Anche qui si tratta di un fatto storico ormai consumato.
Mi riferisco alla scandalosa vicenda dei nostri militari (i soli che si sono comportati con dignità e senso del dovere) che il Governo, dopo essere venuto meno alla parola data, ha deciso di consegnare alla autorità indiane, giustificando la precipitosa retromarcia con la promessa del Governo indiano di non applicazione della pena capitale in danno dei nostri dignitosi fucilieri: fingendo così di ignorare che l’Inghilterra ha esportato in India, come prerogativa dell’ordinamento democratico, anche la divisione dei poteri e dunque l’autonomia dell’ordinamento giudiziario. Ma non basta. Nel nostro mondo militare crescono la disapprovazione, la frustrazione e la sfiducia.
Non era mai accaduto che il Capo di Stato Maggiore della Difesa definisse “una farsa” l’operato del Governo. Da ex Ministro della Difesa avverto in tutte le sue implicazioni le conseguenze dannose di questa dissennata conduzione della vicenda.
Ancorché membro di un esecutivo in procinto di tirare le cuoia, il ministro-ambasciatore Giulio Terzi, diplomatico di nobile lignaggio, non ha ancora sentito il dovere di rassegnare le dimissioni, trincerandosi dietro la schermo della asserita collegialità.
Trova così conferma la regola secondo la quale è grave errore affidare ad un diplomatico, privo di professionalità politica, la guida delle relazioni internazionali.
Sta di fatto che il prof. Monti, chiamato sulla plancia di comando per ripristinare prestigio e credibilità dell’Italia in campo internazionale, chiude la propria esperienza con questa pagina nera.
È la conferma che il ruolo salvifico dei tecnici reclutati dalla società civile è contraddetto dalla realtà.
A quando il ritorno orgoglioso della buona politica, affidata a sperimentati professionisti dell’arte del buongoverno?

Pubblicato sull'Avanti della Domenica martedì 26 marzo 2013

(sabato 29 marzo 2013)

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