Responsabile

Leo Alati

La lezione

Estate metà anni ’70, piccolo borgo di provincia, granello di case affogate nel verde, fra risaie e Po.

In quel tempo, pantaloncini corti e ancora molti capelli in testa, non conoscevo affatto il significato di parole come calura o afa, non perché il sole picchiasse meno, semplicemente perché a quattordici anni ignoravo quel disagio; l’estate era la stagione del bel tempo, del divertimento, dei giorni lunghi dove la luce durava fino a tardi e si poteva star fuori la sera, anche quando faceva buio.

Di villeggiatura, neanche a parlarne; anche questa era una parola quasi sconosciuta. Tutto era villeggiatura, quando si poteva andare a pescare nei fossi, giocare al pallone nel campo dell’oratorio o a pallavolo, con una rete improvvisata costruita con la corda che serviva a legare le balle di fieno e col pallone guadagnato raccogliendo i punti dell’Idrolitina.

La mia “squadra” ed io, avevamo anche la nostra piscina privata, una cava abbandonata nella quale andavamo a fare il bagno; in agosto quasi tutti i giorni.

Acqua sorgente e pulita, freddissima.

Luogo pericoloso, ma a quell’età la soglia fra ardimento, rischio ed incoscienza era così sottile da diventare insignificante.

Con alcune tavole  di legno prese, per così dire, in prestito in un cantiere, avevamo costruito un trampolino, dal quale ci lanciavamo in acqua, emulando i vari Di Biasi e Cagnotto padre. Quel luogo era, però, vietato ai “foresti”, vale a dire a tutti quelli che abitavano fuori i confini del nostro mondo piccolo e che noi chiamavamo, in maniera alquanto dispregiativa, “Turineis”, anche se abitavano ad Asti , a Cuneo oppure nel paese distante pochi chilometri dal nostro.

Di ragazze, naturalmente, neppure l’ombra.

 Nessuna di quelle di nostra conoscenza si azzardava a frequentare la cava; era un territorio riservato ai maschi, una nave pirata dove le femmine non erano ben accette.

Fu quindi con molto stupore che Beppe, una delle figure preminenti del gruppo, annunciò la visita di una sua cugina alla cava, proprio il giorno di ferragosto.

“Devo portarla con noi, altrimenti i miei mi fanno restare a casa.  Viene una volta soltanto, dopodomani torna a Torino.”

Venne così il ferragosto e la nostra cava si popolò d’asciugamani rubati nei bagni di casa e stesi sulle pietre roventi e di  ragazzi in pantaloncini corti e canottiere bianche, con salvagente improvvisati, ricavati da camere d’aria di motorini e trattori.

 Arrivò anche Beppe con quella sua cugina, una bella ragazza con i capelli corti e ricci e con un paio di bellissimi occhi scuri, che nascondeva dietro vistosi occhiali da sole.

Inutile dire che quella figura ci conquistò e, pochi istanti dopo la sua entrata, tutti cercarono di farsi notare, mettendo in evidenza le capacità di maschi dominanti.

Fu Marco, un’altra delle personalità del gruppo, a proporre una gara di tuffi.

Giusto, niente di meglio per esaltare il più forte, il più bello, il più coraggioso della compagnia. E far colpo.

Franca, così si chiamava la bruna, restò in silenzio a guardare attraverso le lenti scure, quella torma d’adolescenti impegnati nei tuffi più strani; dalle panciate incredibili di Giacomo ai salti di ranocchio di Gianni, ai tentativi più o meno riusciti di mezze giravolte di Lello e di Roberto, alle pesanti bombe mie e di Giorgio.

Ricordo che eravamo quasi tutti in acqua, tolto Rino, che non sapeva nuotare, quando Franca si alzò. Si tolse gli occhiali scuri, si levò la maglietta e la gonna e restò in costume intero, un aderente sgambato azzurro e bianco.

Nella cava, scese il silenzio.

Persino i corvi, numerosi nei campi vicini, si chetarono, i cani smisero d’abbaiare e le rane di gracidare.

In quel silenzio irreale, Franca avanzò piano e cominciò a salire lungo il sentiero che si arrampicava sul bordo della cava e portava su, in alto.

Poco dopo arrivò in cima, su di un poggio elevato, dove pochi di noi avevano avuto il coraggio di andare. La sua figura sembrava quasi dipinta dal sole alto, un ritratto splendido di bianco e azzurro.

 Alzò al cielo due braccia così perfette da sembrare finte poi, leggera come un’effimera, si tuffò.

Fu il tuffo più bello che mai vidi in vita mia.

Emerse nell’acqua gelida, fra applausi e grida di giubilo.

Quel giorno imparai che le donne possono fare tutto quello che fanno gli uomini.

A volte, anche meglio.

Silvano Nuvolone

(29 marzo 2013)

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