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Leo Alati

 

 

 

La Risaia

 

 

Mensile dei riformisti vercellesi

Il Cavallo Rosso

Un'opera di grandissima letteratura di Eugenio Corti suggerita da un "libraio" di Domodossola

Marco Zuccari

Fin dalla mia adolescenza era prassi andare in libreria ad acquistare il regalo per mio padre. Più che dopobarba o golfini sapevo che a lui erano graditi dei buoni libri che leggeva con attenzione e gusto, spesso approfondendo con ulteriori testi gli argomenti che l'avevano interessato maggiormente.
In uno dei primi anni '80, mi recai dal solito libraio della mia città, Domodossola, per il regalo di non ricordo più quale ricorrenza. Mi piaceva quel compito: il negoziante era competente e appassionato, sapeva consigliare e spesso sconsigliare questo o quell'autore.
Conosceva papà (erano circa coetanei, essendo nati entrambi nei primi anni venti) e i suoi gusti, condividendo con lui la passione per gli alpini, corpo nel quale entrambi avevano militato.
Quel giorno mi suggerì un romanzo uscito da poco: "Il Cavallo Rosso" di Eugenio Corti, un autore lombardo, brianzolo per l'esattezza, che aveva pubblicato una corposa opera la quale, secondo lui, era ideale per mio padre. Mi disse essere un bellissimo racconto imperniato sulla guerra in Russia, sulla resistenza, con molte pagine dedicate all'Ossola e ai suoi partigiani. Ce n'era abbastanza per appassionare mio padre e lo acquistai.
Papà lesse le oltre mille pagine e ne fu entusiasta. Mi parlava di come riconoscesse le descrizioni della campagna di Russia (lui per sua fortuna l'aveva scampata) riscontrandole con i racconti dei suoi amici che vi erano stati e con i numerosi libri che aveva letto sull'argomento. L'apice dell'entusiasmo l'aveva raggiunto nei capitoli sulla resistenza ossolana. Lì si sentiva protagonista. I luoghi e i personaggi gli erano familiari. Ascoltai con paziente sufficienza i riassunti che mi faceva sulle vicende del libro in Val d’Ossola, condendole e intersecandole con le sue stesse esperienze. Quella volta proprio non riuscì ad arginare il suo entusiasmo. Ero incuriosito da "Il Cavallo Rosso" ma allora non ebbi l'occasione di leggerlo.
A quel tempo, lasciata Domodossola, abitavo proprio in Brianza e un giorno mio padre, venuto a trovarmi, mi annunciò  trionfante che aveva scovato telefono e indirizzo di Eugenio Corti (non so come fece, allora non c'era internet). Lo scrittore abitava a Besana Brianza, a pochi chilometri da casa mia. Papà telefonò, prese appuntamento e andò a fargli visita, tornando ancora più infervorato.
Passarono molti anni; nel 2001 mio padre morì. Io ereditai tutti i suoi libri e, tra questi, "Il Cavallo Rosso".
Lo misi sullo scaffale in bella vista ripromettendomi di leggerlo. Passarono ancora due anni e, finalmente, lo presi in mano. La storia di Ambrogio, Michele, Manno, Alma, Olimpia e gli altri ragazzi del romanzo mi affascinò subito. Nelle pagine che divoravo incontravo qua e là annotazioni di mio padre. Le vicende di quella generazione travolta dalla guerra e dalla lotta partigiana mi avvolgevano con una vivacità e una profondità degna di Tolstoj a cui, scoprii dopo, il Corti era stato paragonato non immeritatamente. Il racconto era lungo, abbracciando trent'anni di storia, e quando lo terminai avvertii lo smarrimento che si prova quando una narrazione si conclude e ci si accorge di averla vissuta emotivamente come se i personaggi fossero amici conosciuti da sempre. Con "Il Cavallo Rosso" avevo percorso i fronti russi e italiani, avevo attraversato l'Ossola dei partigiani e ne avevo riconosciuto le valli, le montagne, i paesi e la mia Domodossola. Avevo palpitato per e con i protagonisti. Avevo letto un'opera di grandissima letteratura.
Decisi di ripercorrere il cammino di papà. Cercai telefono e indirizzo di Eugenio Corti (impresa facile con internet). Ero emozionato quando composi il numero e ancora di più quando lo scrittore in persona mi rispose.
"Sono Marco Zuccari" mi presentai, "lei non mi conosce ma..."
"Zuccari di Domodossola?" mi interruppe lui "Quello delle scarpe?"
Rimasi allibito. Come faceva a ricordare mio padre che, in effetti, prima come fabbricante e poi come grossista, aveva lavorato nel mondo delle calzature per tutta la vita?
Gli dissi che ero suo figlio e che papà era scomparso due anni prima. Mi spiegò che ricordava benissimo quello Zuccari che era stato a casa sua due volte, la seconda delle quali per portargli in regalo un paio di pedule che mio padre gli aveva promesso nella prima visita. Riconobbi in quel gesto la generosità spontanea e un po' candida di papà. Anch’io gli chiesi un appuntamento e qualche sera dopo andai a Besana Brianza. Nel vedere la sua casa riconobbi alcune delle ambientazioni del libro, confermandomi la natura autobiografica del racconto. Mi accolse un bel "giovanotto" (classe 1921 come i ragazzi del sua narrazione), alto, distinto, colto e affabile. Passammo due ore insieme, gli raccontai di papà che egli dimostrò di ricordare davvero bene. Discorremmo del libro e io fui affascinato da quel percorrere con l'autore la genesi dei personaggi, delle situazioni descritte, degli eventi di guerra e di vita comune. Fu come scoprire da dietro le quinte il lavoro di un grande autore. Una esperienza unica nella mia vita, condivisa a distanza di oltre venti anni con mio padre che, intuivo, aveva vissuto le mie medesime emozioni. Un modo meraviglioso di collegarmi al suo Essere e alla sua memoria.
Dedico la chiusura a quel libraio di Domodossola, recentemente scomparso. Gli sono riconoscente, infinitamente riconoscente  perché in quell'anno lontano non mi vendette solo un libro: mi regalò, senza saperlo, uno dei momenti più alti della mia vita di Uomo.

7 giugno 2012

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