Francesco
Guccini: «Senza vino, sigarette e
donne mi consolo con la tv.
Mio
padre? Mai a un mio concerto»
Il
cantautore: il mio successo? In
realtà ho poca autostima
Un pavimento del
Settecento. Pietra e
legno grezzo che si
rincorrono nell’ampio
salone dell’ingresso.
Libri. Libri sugli
scaffali alle pareti,
sui tavolini bassi,
sulle credenze, sulle
poltrone delle stanze
larghe e piene di luce
cupa, luce degli
Appennini.
Guccini, ma in questa
casa ci sono più libri
che dischi.
«Ha senso: io ho smesso
di fare musica, non di
leggere e di scrivere.
Posso fare a meno delle
canzoni e della
chitarra, ma non della
lettura».
Pàvana, con l’accento
sulla prima «a», a due
passi da Porretta Terme,
ormai Toscana. Il bar,
l’ufficio postale, il
verduraio. Francesco
Guccini è tornato a
vivere qui negli anni
Novanta. Pàvana è la sua
Macondo: inietta vita e
magia nelle persone
normali, nei romanzi che
scrive da anni ma anche
nell’aneddotica
quotidiana: le scarpe di
quello che vive giù al
fiume, quella volta che
Tizio o Caio tornarono
ubriachi.
Forse Guccini ha dovuto
smettere di essere
Guccini per trovare
questa vena di realismo
magico che irrora i suoi
racconti?
«Ma no, viene dai libri.
Da bambino abitavamo
qui, una casa più vicina
al fiume. Leggevo tutto
quello che trovavo in
giro. Pure i fumetti che
non mi piacevano. Rubavo
i romanzi d’appendice
alla mia prozia,
schifezze».
La zia, il nonno, il
prozio Enrico che
ritorna in «Amerigo». In
fondo le sue canzoni
sono una Spoon River
familiare.
«Ho sempre vissuto con
parenti, genitori,
amori. La zia che mi
passava i romanzetti una
volta, quando avevo
dodici anni, mi portò a
conoscere il mare:
insieme al parroco di
Pàvana andammo in
pellegrinaggio alla
Madonna della Guardia di
Genova».
Un po’ come quando, di
recente, è stato ad
Auschwitz per la prima
volta, nonostante il
campo di concentramento
abbia dato il titolo
alla sua canzone più
famosa?
«No, ad Auschwitz mi
sono davvero chiesto che
fine avesse fatto Dio
mentre lì gasavano le
persone. Un gigantesco
cimitero senza croci:
non si può non pensare
alla composizione del
concetto di giustizia.
Dov’è la giustizia? Che
cosa è davvero? È
soltanto una parola?».
Suo padre, che venne
internato in un lager
nazista, non le
raccontava nulla?
«No, non ha mai voluto
parlarne. Però mandò due
cartoline, che purtroppo
ho perduto. So che era
nello stesso campo di
Guareschi, ma non si
incontrarono mai, erano
in migliaia. Sa che cosa
facevano, alla sera? Si
riunivano e, stremati
dalla fame, evocavano il
ricordo di quel pollo
con le patate, di quella
pasta con il sugo
grasso. Poi annotavano
tutto in un quaderno.
Carta finissima e
inchiostro annacquato,
perché non ce n’era
abbastanza. Lo facevano
per non perdere la
memoria del gusto. Per
non perdere la speranza,
dico io».
Il padre. Dalle sue
parole sembra sia stato
una figura molto
importante.
«Lo è stato. Anche se
non è mai venuto ad un
mio concerto e anche se,
in tutta la vita, mi ha
fatto solo due regali:
una volta mi donò il
libro
Senza famiglia,
di una tristezza
assoluta. Un’altra
volta, mi diede un
rasoio elettrico».
Lui non era felice del
suo successo?
«No. Mamma diceva sempre
che lui avrebbe
preferito un figlio
giornalista o un figlio
storico, cambiava
versione a seconda
dell’umore».
E lei? È felice del
successo raggiunto?
«Sì, però non ho grande
autostima. Ho studiato
per fare il maestro ma
ho insegnato solo tre
giorni, una supplenza.
Mi sono messo a suonare
e a cantare quasi per
caso, a Bologna. Ho
fatto cose, certo. Ma
non ho mai avuto la
pretesa di incidere
sulle coscienze».
Bompiani ha appena
pubblicato un libro in
cui Gabriella Fenocchio
fa l’esegesi dei suoi
testi. Mi pare un grande
omaggio.
«Persino esagerato. Però
Gabriella era una
raimondiana, come me.
Entrambi, all’università
di Bologna, siamo stati
allievi interni (cioé
stretti collaboratori
del docente,
ndr) del grande
italianista Ezio
Raimondi. Non mi sono
mai laureato perché poi
mi sono messo a suonare
e a cantare. Però
ricordo quelle lezioni.
Una volta voleva che
imparassi il tedesco in
una settimana per poter
studiare un autore».
Però poi le sue canzoni
hanno formato una
generazione, guidandone
l’impegno civile. Forse
perché in fondo
l’ambizione c’era?
«Ma va. Ho sempre
scritto canzoni per me,
mica perché mi credevo
un guru. Che poi, a
tutti gli effetti,
questo abbia prodotto un
mondo nel quale si sono
riconosciuti in tanti,
be’, me lo lasci dire:
questa è l’arte».
Giusto. L’artista crea
una realtà parallela più
convincente della realtà
stessa.
«Sì, ecco perché quando
qualche amico mi chiama
e mi chiede: “scusa
Francesco, ma quella
donna di cui parli nella
canzone X esisteva
davvero?” mi spiace un
poco deluderli, ma è
tutto inventato. O quasi
tutto».
Donne. Una moglie, una
figlia, ora Raffaella,
di trent’anni più
giovane, con cui sta da
decenni. Guccini è un
uomo felice?
«Certo. Non sono mai da
solo».
Non ci sa stare da solo?
«No, è curioso: sono
tornato a Pàvana per
isolarmi dal caos di
Bologna ma qui già a
fine agosto, quando le
giornate cominciano ad
accorciarsi, mi
intristisco. Voglio la
luce in un posto con la
luce triste».
Che cosa la annoia?
«Ormai ci vedo così poco
che quel che riesco a
vedere mi dà solo gioia.
Soffro, piuttosto: io ho
sempre divorato decine
di libri all’anno e
adesso faccio i conti
con una malattia degli
occhi, una maculopatia
bilaterale. Non posso
più leggere, così
Raffaella o un’altra
ragazza che viene a
darci una mano, mi
leggono i libri».
Che cosa le stanno
leggendo in questo
periodo?
«Un libro su un anziano
ebreo che scopre un ex
aguzzino tedesco. Avere
qualcuno che ti legge le
cose è bello, però,
vede, oggi per esempio i
fumetti non li conosco:
che faccio, mi faccio
raccontare le figure?».
Guarda la televisione?
«Moltissimo e le dirò di
più: guardo anche quei
programmi dove c’è gente
contraria alle mie idee
politiche per il solo
gusto masochista di
incazzarmi. Sento dire
cose assurde e comincio
a sbraitare, a
insultare. Però la tv mi
mette davanti a cose che
si muovono. Solo quello
mi dà conforto: sono
ancora capace di gioire
davanti a persone,
macchine, treni, aerei,
cose che si muovono. È
l’eredità di una
generazione, la mia,
cresciuta con il
cinema».
I suoi ce la portavano?
«Macché. Mi portarono sì
e no quattro volte. Una
volta, alla prima
comunione, io volevo
vedere
Buffalo Bill ma
mi fecero vedere
La stirpe del drago,
una cosa su Mao Tse Tung
o simili. Da ragazzino
appena potevo scappavo
al cinema, da solo o con
gli amici. Vedevo
Ombre rosse, ma
pure i film con Nazzari,
capirai».
E oggi va al cinema?
«Ma se riesco a malapena
a spostarmi dal salotto
al letto. Ho un mucchio
di problemi alla schiena
e alle gambe. Che
rabbia. Uno come me che
saltava i fossi giù al
fiume. Vogliamo parlare
del fatto che mi hanno
tolto il vino, le
sigarette e le donne? (ride)
E lo sa che ieri sera
sono andato a letto alle
dieci e mezza? No, dico,
a Bologna, tra sigarette
e bourbon, facevamo le
tre del mattino.
Giocavamo a scopa o con
i tarocchi ma non ci
siamo giocati mai
nemmeno un caffè. Donne
e alcol sì, certo. Erano
vizi da contadini. Io
sono un contadino. Mi
piace stare qui in
campagna perché la cosa
più importante è il
meteo. Che tempo farà
domani, ecco che cosa
conta davvero qui».
Una natura contadina, la
sua, che ha fatto della
«giustizia proletaria»
uno slogan. Quella
giustizia, alla fine,
forse oggi non ha vinto.
«Certo che non ha vinto.
Oggi la politica fa leva
sulle paure, vere o
percepite. E guardi la
propaganda: è il vero
motore della politica.
Però io sono tra quelli
che non si meravigliano
che tante regioni o
province “rosse” siano
diventate leghiste. La
sinistra italiana è
lacerata sin dal
congresso di Livorno e,
anche quando ha vissuto
stagioni migliori, ha
sempre avuto una natura
autoritaria, direi
intollerante. Insomma,
quei comunisti che oggi
sono leghisti, erano
leghisti dentro, solo
che non se ne
accorgevano».
Che cosa le fa più paura
oggi?
«La paura stessa che
leggo sulle facce della
gente. Siamo un paese
impaurito. Stanco,
stremato. Ecco, questo
mi spaventa davvero».
Un rimpianto?
«Premesso che oggi sono
molto felice, mi è
rimasta l’amarezza di
una storia finita male,
in gioventù. Lei era
un’americana, che poi ha
fatto carriera politica
negli Stati Uniti. Però
alla sua famiglia, che
all’epoca stava a Roma,
non piacevo. Una volta,
a casa sua, la madre e i
fratelli inscenarono una
specie di processo: “I
don’t like you!”,
urlavano. Per carità,
non avevano tutti i
torti, però
quell’aggressività mi
fece male. Un amore
poteva finire meglio».
Un processo, un po’ come
quelli che negli anni
Settanta si facevano
agli artisti: tutti
ricordano il «processo»
a De Gregori da parte
dell’estrema sinistra.
«A me non l’hanno mai
fatto. Ma una volta ho
fatto un spettacolo
assieme Dario Fo alla
Palazzina Liberty, a
Milano. Siccome non
c’era posto per tutti,
molti non riuscirono a
entrare. Così si misero
a urlare “fascista” a
Fo. Capisce? Dare del
fascista a Dario. Lo
vede che la nostra
percezione della
politica è guasta da
anni?».
Un grande amico da
sempre?
«Roberto Vecchioni. Ma
anche altri».
Infine, Dio è davvero
morto o che cosa?
«Vive il dubbio. E nel
dubbio ci sono tutte le
risposte. Le verità
assolute ci rovinano».
Intervista di Roberta Scorranese
Intervista di Roberta Scorrarese pubblicata su
Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2018
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