Quei “controllori” innamorati del potere
Mai così tanti giornalisti candidati
Non
è la prima volta che nella storia della Repubblica un
giornalista diventa parlamentare. Il salto dalla scrivania ai
banchi della Camera o del Senato è sempre esistito e se vogliamo
facilitato dalla vicinanza che spesso chi fa informazione ha col
potere. Niente di nuovo quindi? No, qualche novità c’è e ce la
rende immediatamente visibile il dato quantitativo. Nella
prossima legislatura il gruppo di ex giornalisti sarà abbastanza
folto e proveniente da testate di primo piano. Mucchetti e
Severgnini dal Corriere, Dominijanni dal manifesto, Sandro
Ruotolo da Servizio Pubblico, e addirittura due ex direttori:
Sechi del Tempo e Mineo di Rainew24. Per non parlare di Oscar
Giannino, che corre con una lista tutta sua.
Troppi per non tentare di capire che cosa sia successo.
Troppi soprattutto se sommati a un altro dato: accanto a loro in
politica siedono diversi magistrati. Cioè le due professioni,
giornalisti e giudici, che dovrebbero fare da sentinelle al
potere a un certo punto decidono loro stessi di farne parte. Il
salto, al di là del valore dei singoli su cui evidentemente non
sindachiamo, ci raccontano ancora una volta di come profonda sia
la crisi della democrazia in questo Paese. Siccome il sistema
non funziona invece di riformarlo è come se lo rendessimo ancora
più vacillante, contraddittorio, esposto a un disequilibrio tra
i diversi poteri. Perché un lettore dovrebbe credere alla
terzietà, all’obiettività dei giornalisti se poi in maniera
massiccia se ne vanno dall’altra parte? Perché dovrebbero avere
fiducia in un sistema in cui il controllore diventa il
controllato?
I
due fenomeni, per quanto abbiano molti punti in comune, vanno
analizzati in maniera separata: da una parte si tratta di capire
il connubio magistratura-politica, dall’altra quello tra
informazione, spettacolo e media. Ed è su quest’ultimo punto che
mi interessa soffermarmi, non solo per il dato macroscopico che
ci consegnano le prossime elezioni, ma anche per un altro fatto
che si intreccia a questo: mentre un drappello va in Parlamento,
la carta stampata sta attraversando una crisi che alcuni
iniziano a definire epocale. Giornali che chiudono o reggono
pochi mesi di vita, testate storiche anche a livello
internazionale che decidono di dire basta e restare solo online.
Sembra che più nessuno abbia bisogno di noi giornalisti, come se
fossimo diventati una categoria in via d’estinzione. Non resta
quindi, come suggeriva in un suo articolo sull’Huffington Post
Ritanna Armeni, che tentare di salvarsi cercando una diversa
collocazione da un’altra parte.
L’intreccio
tra informazione, politica e spettacolo ha avuto gli ultimi
vent’anni come laboratorio in cui dare spazio a nuove figure,
mescolare i piani, costruire senso comune. Non è un caso che i
talk show siano stati, nel bene e nel male, il luogo dove si
sono perse o vinte le elezioni e dove giornalisti e politici
sono stati gomito a gomito per anni. In quelle dirette
televisive è cambiata la televisione ed è cambiata la politica.
Ma questo lo sapevamo. Ciò forse di cui non eravamo veramente
consapevoli è che quel modo di fare informazione stava cambiando
anche noi, il modo di intendere il nostro mestiere e il suo
rapporto con i cittadini. La puntata di Servizio Pubblico in cui
ha partecipato Berlusconi, da questo punto di vista, ha forse
chiuso una fase perché ha portato all’esasperazione tutti i
difetti e i pregi di quel modo di fare televisione, spostando
l’asticella dall’informazione definitivamente alla voce
spettacolo. E così che, mentre nessun programma di politica può
fare a meno dei giornalisti,
i
giornalisti rischiano di stare senza lavoro (e forse anche di
avere meno credibilità). Non si tratta di rimpiangere il tempo
che fu o di chiedere un azzeramento di questo o quel modo di
fare giornalismo. Ma sicuramente questa volta non possiamo
fuggire da una riflessione seria su quale sia il ruolo
dell’informazione in un sistema comunicativo completamente
mutato. C’è ancora bisogno di professionisti che raccontino la
realtà quando chiunque può esprimere il proprio parere o
raccontare un fatto sui social network? Serve ancora un ruolo
terzo tra la politica e la società per capire le scelte di chi
ci governa? Sono domande a cui è necessario rispondere presto. E
non si tratta di difendere la categoria o di fare una
discussione solo tra giornalisti sperando di evitare il peggio
per il proprio futuro lavorativo. Le domande sul ruolo
dell’informazione riguardano tutti, perché strettamente connesse
al livello democratico di un Paese, al suo grado di civiltà. Non
aspettiamo di venire travolti. Ragioniamoci insieme.
Articolo di Angela Azzaro pubblicato su Gli Altri
il 18 gennaio 2013. |