I frutti velenosi di Salvini
Da
quando Massimo D’Alema se ne uscì con la famosa trovata della «costola della
classe operaia», il fenomeno Lega è stato per lo più sottovalutato. Blandito e
vezzeggiato a destra e sinistra, e anche temuto quando era al governo e sembrava
sul punto di prendere il potere, il partito di Bossi non è stato compreso dai
più nella sua natura profondamente fascista. E quindi non solo truce nelle
parole d’ordine anti-meridionali, xenofobe, secessioniste e anti-europee, ma
anche profondamente opportunista, capace di mutare obiettivi e alleanze, pur
mantenendo la sua natura reazionaria.
Prendiamo il giovane Salvini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rivelata
come un partito arraffone, corrotto come qualsiasi altro, Salvini ha dato una
sterzata proponendosi come alternativa «giovanile», radicale e scapestrata.
Quindi, niente più elmi con le corna, frescacce celtiche e tutto il folclore che
copriva gli inciuci con Formigoni e Berlusconi, ma una politica di movimento e,
soprattutto, una dimensione nazionale in cui far confluire la destra estrema e
iper-nazionale che non può identificarsi con il secessionismo. Ecco, allora,
l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound,
imbarcata in un progetto che vede la Lega come partito leader della destra
italiana post-berlusconiana. Altro che Alfano, borghese democristiano e doroteo
fino al midollo.
Ma
per realizzare questo progetto, che sembra finora coronato da un certo successo,
anche se limitato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il populismo, un
terreno politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piazzato la
sua ipoteca. Il leader della Lega ha bisogno di far crescere la tensione, di
scaldare gli animi, di mobilitare, se non altro nell’opinione pubblica, quell’ampio
pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la «maggioranza silenziosa») che la
pensa come lui in tema di tasse, Europa e immigrati, anche se magari non si
dichiara ideologicamente fascista o leghista. E niente di meglio, in questo
senso, che andare a provocare nomadi e stranieri, che da quasi trent’anni fanno
da parafulmine per tutti i mal di pancia nazionali.
Ed ecco allora la provocazione di Bologna contro i Sinti, cittadini italiani in
tutto e per tutto che hanno il torto di non vivere come i buoni leghisti del
varesotto e della bergamasca. Ecco gli striscioni «No all’invasione» davanti ai
ricoveri di rifugiati e richiedenti asilo, gente che non è venuta lì in macchina
o in Suv, come i coraggiosi leghisti, ma ha attraversato mezzo mondo a piedi ed
è scampata ai naufragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a Tor Sapienza, a
Roma, a gettare benzina sul fuoco acceso da estremisti di destra e, sembra, dai
pusher che non vogliono centri per stranieri. Provocazioni fredde, calcolate e
mirate, appunto, al ventre di quella società che mai andrebbe a tirare pietre
contro gli stranieri, ma si rallegra profondamente quando qualcuno lo fa al
posto suo.
Verrebbe voglia di archiviare tutto questo come il solito fascismo della solita
Italia, ma sarebbe un errore.
Perché
oggi gli anticorpi sono deboli e frammentari. Né l’attuale maggioranza, che ha
imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata
da questa destra spregiudicata e movimentista. E basta dare un’occhiata ai
commenti e ai blog dei quotidiani nazionali per capire quanto sia ampio il
sostegno ai Salvini di turno.
D’altra parte, è sempre la vecchia storia. Quanto più le prospettive sono
incerte, il futuro opaco, il lavoro mancante, il degrado della vita pubblica in
aumento, tanto più è facile scaricare la frustrazione sugli alieni a portata di
mano. E anche questo è un frutto avvelenato di qual thatcherismo appena
imbellettato che passa sotto il nome di renzismo.
Articolo di Alessandro
Dal Lago pubblicato il 12/11/2014 su il
manifesto |