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Leo Alati

I frutti velenosi di Salvini

Da quando Massimo D’Alema se ne uscì con la famosa trovata della «costola della classe operaia», il fenomeno Lega è stato per lo più sottovalutato. Blandito e vezzeggiato a destra e sinistra, e anche temuto quando era al governo e sembrava sul punto di prendere il potere, il partito di Bossi non è stato compreso dai più nella sua natura profondamente fascista. E quindi non solo truce nelle parole d’ordine anti-meridionali, xenofobe, secessioniste e anti-europee, ma anche profondamente opportunista, capace di mutare obiettivi e alleanze, pur mantenendo la sua natura reazionaria.
Prendiamo il giovane Salvini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rivelata come un partito arraffone, corrotto come qualsiasi altro, Salvini ha dato una sterzata proponendosi come alternativa «giovanile», radicale e scapestrata. Quindi, niente più elmi con le corna, frescacce celtiche e tutto il folclore che copriva gli inciuci con Formigoni e Berlusconi, ma una politica di movimento e, soprattutto, una dimensione nazionale in cui far confluire la destra estrema e iper-nazionale che non può identificarsi con il secessionismo. Ecco, allora, l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound, imbarcata in un progetto che vede la Lega come partito leader della destra italiana post-berlusconiana. Altro che Alfano, borghese democristiano e doroteo fino al midollo.
Ma per realizzare questo progetto, che sembra finora coronato da un certo successo, anche se limitato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il populismo, un terreno politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piazzato la sua ipoteca. Il leader della Lega ha bisogno di far crescere la tensione, di scaldare gli animi, di mobilitare, se non altro nell’opinione pubblica, quell’ampio pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la «maggioranza silenziosa») che la pensa come lui in tema di tasse, Europa e immigrati, anche se magari non si dichiara ideologicamente fascista o leghista. E niente di meglio, in questo senso, che andare a provocare nomadi e stranieri, che da quasi trent’anni fanno da parafulmine per tutti i mal di pancia nazionali.
Ed ecco allora la provocazione di Bologna contro i Sinti, cittadini italiani in tutto e per tutto che hanno il torto di non vivere come i buoni leghisti del varesotto e della bergamasca. Ecco gli striscioni «No all’invasione» davanti ai ricoveri di rifugiati e richiedenti asilo, gente che non è venuta lì in macchina o in Suv, come i coraggiosi leghisti, ma ha attraversato mezzo mondo a piedi ed è scampata ai naufragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a Tor Sapienza, a Roma, a gettare benzina sul fuoco acceso da estremisti di destra e, sembra, dai pusher che non vogliono centri per stranieri. Provocazioni fredde, calcolate e mirate, appunto, al ventre di quella società che mai andrebbe a tirare pietre contro gli stranieri, ma si rallegra profondamente quando qualcuno lo fa al posto suo.
Verrebbe voglia di archiviare tutto questo come il solito fascismo della solita Italia, ma sarebbe un errore. Perché oggi gli anticorpi sono deboli e frammentari. Né l’attuale maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata da questa destra spregiudicata e movimentista. E basta dare un’occhiata ai commenti e ai blog dei quotidiani nazionali per capire quanto sia ampio il sostegno ai Salvini di turno.
D’altra parte, è sempre la vecchia storia. Quanto più le prospettive sono incerte, il futuro opaco, il lavoro mancante, il degrado della vita pubblica in aumento, tanto più è facile scaricare la frustrazione sugli alieni a portata di mano. E anche questo è un frutto avvelenato di qual thatcherismo appena imbellettato che passa sotto il nome di renzismo.

Articolo di Alessandro Dal Lago pubblicato il 12/11/2014 su il manifesto

 

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