Elogio dei riformisti
La tolleranza di
Turati, quella piccola lezione per una sinistra smarrita. Un saggio ripercorre
la figura del leader socialista e una tradizione da sempre minoritaria in Italia
Che
cosa significa essere di sinistra? È possibile ancora esserlo? Sentire nel
profondo di appartenere a una storia di libertà, a una tradizione di critica
sociale e di sogno, a un percorso che sembra essersi lacerato, reciso. Con un
immenso passato e un futuro incerto? E soprattutto di quale sinistra parliamo e
di quale tradizione? E come si coniugano le due anime della sinistra, quella
riformista e quella rivoluzionaria? Che genere di dialogo c'è stato tra loro?
Domande che affliggono militanti, intellettuali e uomini di partito. Domande che
affliggono me da sempre. Alessandro Orsini giovane professore napoletano di
Sociologia Politica all'Università di Roma Tor Vergata ha provato a dare delle
risposte. Ha scritto un libro intitolato Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino).
Il titolo sembra presentare un saggio, di quelli accademici, lunghi e tortuosi.
E invece credo sia la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli
ultimi anni. Che non ha paura di maneggiare materia delicata. Alessandro Orsini
ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci
e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento
sull'altra. L'idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno
educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei
pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le
parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario,
non importa quale: "La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la
stessa importanza di uno straccio mestruato". Invitava i suoi lettori a
ricorrere alle parolacce e all'insulto personale contro gli avversari che si
lamentavano delle offese ricevute: "Per noi chiamare uno porco se è un porco,
non è volgarità, è proprietà di linguaggio". Arrivò persino a tessere l'elogio
del "cazzotto in faccia" contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano
essere un "programma politico" e non un episodio isolato. Certo, il pensiero di
Gramsci non può essere confinato in questo tratto violento, e d'altronde le sue
parole risentivano l'influenza della retorica politica dell'epoca, che era (non
solo a sinistra) accesa, virulenta, pirotecnica. Il politicamente corretto non
era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati,
dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima
battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di
coniugare socialismo e liberalismo: "Tutte le opinioni meritano di essere
rispettate. La violenza, l'insulto e l'intolleranza rappresentano la negazione
del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto
all'eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non
esiste la libertà".
Orsini
raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio
d'origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l'eredità
peggiore della pedagogia dell'intolleranza edificata per un secolo dal Partito
Comunista sopravviva ancora. Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c'è
più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della
Sel di Vendola è molto meno acceso.
Ma c'è invece, fuori dal Parlamento, una certa sinistra che vive di dogmi. Sono
i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità
unica tra le mani. Loro sono i seguaci dell'unica idea possibile di libertà,
tutto quello che dicono e pensano non può che essere il giusto. Amano Cuba e non
rispondono dei crimini della dittatura castrista - mi è capitato di parlare con
persone diffidenti verso Yoani Sánchez solo perché in questo momento rappresenta
una voce critica da Cuba - , non rispondono dei crimini di Hamas o Hezbollah,
hanno in simpatia regimi ferocissimi solo perché antiamericani, tollerano le
peggiori barbarie e si indignano per le contraddizioni delle democrazie. Per
loro tutti gli altri sono venduti. Mai che li sfiori l'idea che essere marginali
e inascoltati nel loro caso non è sinonimo di purezza, ma spesso semplicemente
mancanza di merito.
Turati a tutto questo avrebbe pacificamente opposto il diritto a essere eretici,
che Orsini ritiene essere il suo più importante lascito pedagogico. Questo
fondamentale diritto ha trovato la formulazione più alta nell'elogio di Satana,
metafora estrema dell'amore per l'eresia e dell'odio per i roghi. Satana,
provoca Turati, è il padre dei riformisti: "Non siamo asceti che temono i
contatti della carne, siamo figli di Satana (...). Se domani viene da me il Re,
il Papa, lo Scià di Persia, il Gran Khan della Tartaria, il presidente di una
repubblica americana, non per questo rinuncio alle mie idee. Non per questo
transigo o faccio atto d'omaggio, ma resto quello che sono, e ciascuno di noi
rimane quello che è".
Ma l'odio per i riformisti, - spiega Orsini - è il pilastro della pedagogia
dell'intolleranza. Dal momento che i riformisti cercano di migliorare le
condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi
rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella
cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori
sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l'odio contro il sistema e
rilancia l'iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato tanto peggio tanto meglio.
I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società
migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e
migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva
alla gestione della cosa pubblica. I riformisti - spiegava Turati - sono
realisti e tolleranti. Realisti perché credono che non sia possibile costruire
una società in cui siano banditi per sempre i conflitti. Tolleranti perché,
rifiutando il perfettismo, si pongono al riparo dalla convinzione di avere avuto
accesso alla verità ultima sul significato della storia. Turati pagò a caro
prezzo la sua durissima battaglia contro la pedagogia dell'intolleranza. Quando
morì in esilio, in condizioni di povertà, Palmiro Togliatti scrisse un articolo
su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato "il più corrotto, il più
spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra".
Consiglio questo libro a chi si sente smarrito a sinistra. Potrebbe essere uno
strumento di comprensione e soprattutto, credo, di difesa. Difenderebbe il
giovane lettore dai nemici del dialogo, dai fautori del litigio, dagli
attaccabrighe pronti a parlare in nome della classe operaia, degli emarginati,
degli "invisibili", dai pacifisti talmente violenti da usare la pace come
strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente. Turati aiuta a
comprendere quanta potenza ci sia nel riformismo, che molti considerano pensiero
debole, pavido, direbbero persino sfigato. Il riformismo di cui parla Turati fa
paura ai poteri, alle corporazioni, alle caste, perché prova, cercando consenso,
ponendosi dubbi, ragionando e confrontandosi, di risolvere le contraddizioni qui
e ora. Coinvolgendo persone, non spaventandole o estromettendole perché
"contaminate". Non è un caso che i fascisti prima e brigatisti poi avessero in
odio soprattutto i riformisti. Non è un caso che i fascisti temessero Matteotti
che aveva denunciato brogli elettorali. Non è un caso che i brigatisti temessero
i giudici riformisti, i funzionari di Stato efficienti. Perché per loro i
corrotti e i reazionari erano alleati che confermavano la loro idea di Stato
da
abbattere e non da migliorare.
Per Turati il marxismo non può essere considerato un "ricettario perpetuo" in
cui trovare la soluzione a tutti i problemi perché uno stesso problema, come
l'emancipazione dei lavoratori, può richiedere soluzioni differenti in base ai
contesti, ai periodi storici e alle risorse disponibili in un dato momento.
Meglio diffidare da coloro che affermano di sapere tutto in anticipo; meglio
"confessarci ignoranti"". Turati era convinto che la prospettiva culturale da
cui guardiamo il mondo fosse decisiva per lo sviluppo delle nostre azioni.
Questa è la ragione per cui attribuiva la massima importanza al ruolo
dell'educazione politica: prima di trasformare il mondo, occorre aprire la mente
e confrontarsi con i propri pregiudizi. Le certezze assolute fiaccano anche le
intelligenze più acute: la pedagogia della tolleranza è il primo passo per la
costruzione di una società migliore.
Articolo di Roberto Saviano pubblicato su La Repubblica del 28
febbraio 2012
(17/3/2015) |