“Maltrattare la lingua è come dire: non sono Casta”
Il presidente della Crusca: “Le elezioni uccidono
l’italiano. E il campione è il M5S”
Slogan
«Il messaggio elettorale è stato ridotto a slogan. Frasi
fatte come: “Gli immigrati aiutiamoli a casa loro, per
prima cosa aboliremo la legge Fornero, gli italiani
innanzitutto, basta con le tasse universitarie” sono
solo titoli ad effetto.
L’“Uno vale uno” grillino trova
in questa sintassi elementare la sua perfetta
realizzazione»
Scorciatoie lessicali, slogan a buon mercato,
congiuntivi bistrattati, emoticon al posto di un
programma politico. Ragionamenti brevi come un tweet
(scritto male) sul bagnasciuga della campagna
elettorale. «Un mare che rischia di fare una prima
grande vittima: la lingua italiana». A lanciare
l’allarme, all’alba di questa battaglia che si chiuderà
con il voto del 4 marzo, è Claudio Marazzini, presidente
dell’Accademia della Crusca. Gli è bastato l’ascolto di
qualche talk show, la lettura dei social e dei
quotidiani di questi primi giorni di «posizionamento dei
leader» per capire che questa «sarà la campagna
elettorale linguisticamente più povera di tutti i tempi,
al punto che se ne farà un oggetto di studio».
Professore quali sono i difetti
peggiori di questi duelli appena cominciati?
«A parte che i duelli non si vedono, nel senso che i
candidati rifuggono il confronto, il grande male di
quest’ultima caccia al voto, sta innanzitutto nell’aver
ridotto il messaggio elettorale a slogan. Frasi fatte
come “gli immigrati aiutiamoli a casa loro, per prima
cosa aboliremo la legge Fornero, gli italiani
innanzitutto, basta con le tasse universitarie” sono
titoli ad effetto lasciati volutamente orfani di un
ragionamento completo».
Che ne pensa di un candidato come
Attilio Fontana che esce dall’anonimato evocando la
difesa della razza?
«L’ha detto lei, lo ha fatto per uscire
dall’anonimato, poi si è pure tirata in ballo la
Costituzione e se vuole la mia opinione nella
Costituzione il riferimento alla razza deve comunque
restare, al riparo dai fraintendimenti».
Fuori dagli slogan secondo lei c’è
un vacuum lessicale che corrisponde a un vuoto politico?
«È presto per dirlo. Per il momento si sta uccidendo
la lingua italiana».
Uno dei grandi accusati sarà gioco
forza Luigi Di Maio e i suoi congiuntivi…
«Quegli strafalcioni meritano un discorso a parte.
Perché usciti dalla bocca di un candidato premier dei
Cinque stelle diventano un manifesto».
Cioè?
«Vedete, dice Di Maio, io maltratto la lingua
italiana esattamente come voi, non sono uno della
Casta».
Non ci dica che l’ha fatto
apposta...
«Non dico questo, ma una cosa così anche se lascia
l’uso corretto dell’italiano agonizzante sotto la
cornice azzurra di Facebook, alla fine porta voti.
Peccato, comunque che certe espressioni non vengano
pronunciate durante un dibattito, se non altro qualcuno
si indignerebbe».
Nostalgia per le vecchie tribune
elettorali con la clessidra?
«Assoluta. Anche per un confronto scandito
dall’orologio elettronico. Prenda per esempio l’ultimo
duello in Francia fra Macron e la Le Pen, qui faccia a
faccia così ce li scordiamo».
Per restare in Italia invece?
«Mi era molto piaciuto il dibattito sulla
Costituzione fra Matteo Renzi e il professor Gustavo
Zagrebelsky fu molto interessante e gustoso, non vedo
molti altri leader disponibili al match diretto e invece
sarebbe molto utile».
Lei sostiene che c’è un risvolto
grottesco nella pochezza lessicale che domina la scena
politica a cosa si riferisce?
«A volte capita di guardare le imitazioni di Crozza e
non riuscire più a distinguerli dall’originale. E qui i
casi sono due: o i politici fanno ridere, o i comici
sono maturi per fare politica, ma Grillo se n’è accorto
già parecchi anni fa».
Ci sarà pure una lettura più
raffinata di certe uscite…
«Di Maio insegna: dietro una comunicazione
semplificata si avverte il profumo dell’antipolitica:
l’uso impreciso dell’italiano è una carta forte da
giocare, come ben spiegava Umberto Eco nella sua
fenomenologia di Mike Bongiorno, che incarnava
fortemente un senso di mediocrità diffusa».
Quindi?
«“L’uno vale uno” lanciato dai 5 stelle trova in
questa sintassi elementare la sua perfetta
realizzazione».
Ma un tweet, che ora può andare
oltre i 14 caratteri, può davvero comunicare con
efficacia un programma politico?
«Sì, ma se in casi come quello di Ungaretti la
brevità geniale può portarti al Nobel, lo fa perché ha
dietro un mondo di idee. Se si lancia uno slogan solo
perché si ha voglia di acchiappare voti, resta uno
slogan».
Intervista di Emanuela Minucci pubblicata su
La Stampa il 21 gennaio 2018
22 gennaio 2018 |