Dalla crisi non si esce senza una buona borghesia
Gianfranco Sabattini
Le
difficoltà in cui versa l’Italia, per la crisi sociale, politica ed economica in
cui è sprofondata, inducono a chiederci quali siano le cause che impediscono
l’avvio di un processo che porti al suo superamento; il fatto è reso grave dalla
circostanza che, a differenza di quanto sta accadendo in altri Paesi importanti
tra quelli più industrializzati del mondo, in Italia non si avvertono segnali,
sia pur deboli, che preludano al rilancio dell’economia italiana.
Questa situazione spinge molti analisti a chiedersi perché ciò accada. Secondo
Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, che hanno affrontato l’argomento in un loro
saggio di recente pubblicazione, dal titolo “L’eclissi della borghesia” (Laterza),
le difficoltà che l’Italia sta incontrando nel superare le “secche” dell’attuale
crisi sono dovute alla lenta scomparsa della “borghesia”, divenuta il “nervo
scoperto di un Paese in affanno, sostanzialmente fermo,… e incapace di
proiettarsi verso il futuro”. Per gli autori, l’eclissi della borghesia è
infatti il comune denominatore di una crisi che ha investito contemporaneamente
la società, la politica e l’economia: ad una società appiattita e impaurita
dagli effetti devastanti della crisi e di un’economia che non cresce e non
innova corrisponde una politica “schiacciata sul presente”, priva di
autorevolezza, lontana dalla società civile e incapace di proporre stimoli alla
base produttiva che non siano “tamponi” momentanei per la conservazione
dell’esistente.
La
borghesia della quale parlano gli autori non corrisponde a quella di stampo
ottocentesco, connotabile unicamente in termini di categorie economiche e di
conflitto tra capitale e lavoro, ma è una classe sociale che ha come missione lo
svolgimento di una funzione politica; in altre parole, è una minoranza, che
costituisce l’“ossatura di una classe dirigente, fornita di una bussola con la
quale è in grado di guidare e orientare un popolo, attraverso regole condivise e
un’idea di futuro”.
Il prezzo che l’Italia sta pagando per la scomparsa della sua borghesia è molto
alto, in quanto comporta la crisi di una società aperta in grado di garantire
opportunità a tutti, senza proteggere solo i privilegi di pochi; di una
borghesia, quindi, che andando oltre la pura e semplice gestione delle risorse
economiche, promuova e organizzi il cambiamento e la spinta verso la modernità.
Questo tipo di borghesia è venuta a mancare al nostro Paese, mentre continua ad
essere presente e radicata in altri Paesi industrializzati, anche se, nella fase
attuale, tende ad esercitare sconvenientemente le sue prerogative, piegando la
politica alla cura dei suoi esclusivi interessi.
Eppure, in Italia, sebbene in presenza di condizioni storiche non sempre
favorevoli, a partire dagli anni pre-unitari, una simile borghesia si era
formata, affermano gli autori, concorrendo a prefigurare il futuro del Paese in
termini di sistema; in termini, cioè, di una società, di una politica e di
un’economia ricondotte ad unum dallo Stato, loro motore propulsivo.
La modernizzazione del Paese può essere considerata il filo che lega tra loro le
minoranze succedutesi nel tempo: dalla minoranza patriottica risorgimentale a
quella “beneduciana” del periodo fascista, sino ai gruppi dirigenti della Prima
repubblica. In conseguenza di ciò, la bussola della modernizzazione è sempre
stata nelle nani di un’élite borghese che ha presidiato e governato tutti gli
snodi strategici della storia nazionale. Secondo gli autori, sia nella politica
(con personalità come Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Pietro Nenni e Palmiro
Togliatti), sia nell’economia (con Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Adolfo
Tino, Ezio Vanoni ed altri ancora), l’utilizzo della leva pubblica è stato
determinante per indirizzare e governare l’industrializzazione e la
modernizzazione dell’Italia, ma anche la formazione e il rinnovamento della
stessa classe dirigente.
Se così sono andate le cose, perché la borghesia si è eclissata? Per gli autori,
l’origine del fenomeno è da rinvenirsi nella “genesi del boom economico del
dopoguerra e nei mutamenti sociali che ha prodotto”. L’aumento del livello di
benessere ha originato un processo di “imborghesimento di massa” del Paese,
ovvero una sua “cetomedizzazione” che ha omologato gli stili di vita e la
maggior parte dei valori condivisi dalla società. Ciò ha originato tre tendenze:
la prima è stata una mobilità verticale della struttura sociale, che ha
risucchiato al centro, “dall’alto e dal basso”, tutti gli strati della società;
la seconda è stata la diffusione dell’iniziativa individuale, che ha messo capo
alla dilatazione dei piccoli e medi imprenditori; la terza conseguenza è stata
l’affermarsi del primato del benessere e della sicurezza economica acquisiti su
ogni altra cosa, in particolare sulla progettazione del futuro e sulla
realizzazione di una migliore giustizia sociale.
Il ceto medio, nato sulla spinta del boom economico, si è consolidato negli anni
successivi con i crescenti livelli della spesa pubblica, ma con uno Stato che,
cessando di porsi come riferimento della riconduzione a sistema dei rapporti tra
società, politica ed economia, si è trasformato lentamente solo in ente
erogatore. Tutto ciò ha favorito la formazione di un modello di società che ha
incoraggiato sempre di più l’iniziativa individuale, appiattendo il rinnovamento
di un’avanguardia borghese a tutela degli interessi collettivi. In questo modo,
il ceto medio, senza il ruolo tradizionale della borghesia, ha trovato la sua
tutela e rappresentanza politica nel collatetaralismo con i grandi partiti di
massa, la DC ed il PCI ispirati in maniera molto simile la prima alla dottrina
sociale della Chiesa ed il secondo al “sol dell’avvenire” della regolazione
sovietica del socialismo.
L’unico
tentativo di rottura dell’“invaso cetomedista” è stato compiuto dal PSI di
Bettino Craxi, il quale però, non disponendo della forza politica e
dell’appoggio popolare di cui avrebbe avuto bisogno, ha visto ridursi il suo
tentativo di innovare la politica a mera sponda del “rampantismo” e dello “yuppismo”,
compromettendo irreversibilmente il risultato del progetto perseguito e
consegnando, con le inchieste non disinteressate di “Mani Pulite”, il craxismo
alla damnatio memoriae. Inoltre, l’egemonia indiscussa della DC e del PCI ha
dato origine ad un processo di spartizione di ogni segmento del ceto medio che
ha alimentato forme sempre più estese di corporativismo e di occupazione di
natura partitica delle istituzioni, facendo nascere una “questione morale” che
si è inteso indirizzare solo contro chi aveva osato incrinare la “granitica
tenuta” del blocco sociale e politico che si identificava nei due partiti di
massa maggiori.
Con la crisi della Prima repubblica, un ceto medio impaurito ha incominciato a
rifiutare i corpi intermedi della rappresentanza politica, cioè i partiti, che
sino ad allora erano stati il suo “bastione di difesa”, per affidarsi, con
l’avvento della Seconda repubblica, a nuovi partiti, ridotti a corpi ad personam
o, nel migliore dei casi, a corpi al servizio di clan e di gruppi privi della
capacità di elaborare e di attuare un progetto di crescita e di sviluppo del
Paese nell’interesse di tutti; mentre ciò che residuava dell’élite borghese del
passato si è sempre più orientato a difendere e a gestire quanto aveva potuto
accumulare nel passato e a competere parassitariamente nel processo di
privatizzazione della proprietà pubblica. Nel nostro Paese, concludono gli
autori, si è giunti così a disporre di istituzioni pubbliche sempre meno
riconosciute dalla società civile, per cui è divenuto sempre più facile per chi
le occupava trasformarle in luoghi ”di uno Stato inerme anziché in sedi a
garanzia di un condiviso cambiamento”.
L’analisi di De Rita e di Galdo ha il difetto di limitarsi a descrivere il vuoto
borghese che si è prodotto in Italia quale anomalia propria della genesi del
boom economico del secondo dopoguerra, come se si fosse autogenerato
indipendentemente dalle scelte di chi lo ha governato; è infatti in quelle
scelte, soprattutto in quelle effettuate dopo la ricostruzione, a partire dalla
fine degli anni Sessanta, all’insegna del “piccolo è bello”, che si deve il
progressivo indebolimento della classe borghese, così come la intendono De Rita
e Galdo. Sono state quelle scelte che hanno dato la stura alla nascita dello
sfrenato individualismo, sia dal lato del consumo, sia da quello della
produzione; individualismo che, accompagnato dalla crescente egemonia della
politica sulla società civile e sulla economia, ha spento il processo di un
autonomo rinnovamento della classe borghese, la cui assenza oggi pesa sulla
capacità del Paese di uscire dalla crisi. La speranza che possa accendersi un
“fuoco del cambiamento”, mettendo capo alla formazione di una nuova élite di cui
si avverte il bisogno, ha una valenza solo consolatoria e tale è destinata a
rimanere sino a quando non si inizierà a porre rimedio agli effetti negativi
delle scelte che sono all’origine di tutti i mali attuali dell’Italia.
Pubblicato il 13-01-2014 su Avanti!
(16 gennaio 2014) |