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Leo Alati

L’ultimo discorso di Napolitano

L’antipolitica non è solo all’opposizione, in Italia si è installata al potere da vent’anni.

Claudio Martelli

Nel suo ultimo discorso il Presidente della Repubblica ha sferrato un durissimo attacco contro quella che ha definito “l’antipolitica” arrivando a definirla “una patologia eversiva”. L’antipolitica, e cioè il rifiuto, il disprezzo e l’odio verso la politica, i suoi protagonisti, il sistema nel suo assieme si sono manifestati nella storia in tante maniere diverse. Bersaglio dell’antipolitica è un determinato assetto di potere o, anche, nei casi più rari e più estremi, il potere politico in quanto tale e lo Stato stesso con le istituzioni pubbliche. Tutte le rivoluzioni sono state, almeno per un momento, antipolitiche, nel senso che combattevano la politica al potere e puntavano a rovesciarla con le buone o con le cattive, salvo, una volta conquistato il potere instaurare un’altra, diversa politica: la loro. Possibilmente senza alternative…

Un’antipolitica che non avesse lo scopo di rovesciare il potere esistente per affermare il proprio si ridurrebbe a generica protesta, a impotente ribellismo, ad agitazione qualunquista e, in genere, sarebbe destinata a un rapido declino. I profeti inconcludenti sono più deludenti e più inascoltati di quelli disarmati.

Oggi, in Italia e in Europa, l’antipolitica si esprime soprattutto con il populismo e con il giustizialismo. Attenzione: il populismo di oggi ha scarse parentele con quello russo di fine ‘800 da cui pure prende il nome. Si trattò allora di un moto di ribellione all’autocrazia zarista che contagiò una generazione di giovani studenti e intellettuali borghesi e aristocratici, spingendoli ad “andare verso il popolo” e i suoi bisogni in una sorprendente mescolanza di afflato religioso, di moderna coscienza progressista e di degenerazioni terroristiche. Anche il giustizialismo di oggi prende il nome da un fenomeno politico assai distante: l’esperienza di Peron e del peronismo argentino con le sue masse diseredate – i descamisados – in lotta per la giustizia sociale a suon di spesa pubblica e anarchia sindacale che rapidamente condussero l’Argentina al tracollo finanziario.

Viceversa il giustizialismo che da trent’anni almeno affligge l’Italia è assai più attento alla sfera penale che a quella sociale. Esso consiste in una richiesta prepotente, gridata, di giustizia sostanziale, esemplare, spiccia, poco attenta, per non dire ostile, a regole, procedure, garanzie dei diritti dell’imputato. Specialmente quando si tratta di politici. Naturalmente il degrado della politica – per restare ai casi più recenti gli scandali del Mose di Venezia, dell’Expo di Milano, di mafia capitale a Roma – offre scenari ideali e argomenti molto concreti al giustizialismo.

E’ vero quel che ha detto Napolitano, fare di tutte le erbe un fascio, fomentando il disgusto e la rabbia, se soddisfa gli istinti forcaioli ottunde la capacità di capire, cioè di distinguere, individuando le malefatte personali e le cause specifiche della corruzione e le specifiche responsabilità dei corrotti. Tuttavia il quadro d’assieme della corruzione italiana il suo estendersi e incancrenirsi ben oltre la dimensione svelata e punita vent’anni fa all’epoca dell’inchiesta Mani pulite meritava e merita dal primo magistrato italiano parole più nette e incisive.

Viceversa il Presidente Napolitano è apparso molto convinto e determinato nel denunciare l’antipolitica molto meno nel denunciare il degrado della politica che dell’antipolitica è la causa prima.

Il degrado della politica è fatto di corruzione, di ruberie – in danno allo Stato ma anche ai poveri, anche ai rom! – di clientelismo, di nepotismo fino alle collusioni con le bande e i sistemi criminali. Ma se la politica è ridotta a questo spettacolo indecente è perché la democrazia italiana è stata sospesa, trafitta e fatta prigioniera.

Si è cominciato con la liquidazione per via giudiziaria dei partiti e dei politici che avevano governato l’Italia per mezzo secolo rei di finanziamenti illeciti. Decimata, messa in ginocchio, infine travolta la vecchia classe politica, il vuoto è stato colmato dai nuovi partiti, populisti e personalisti, e dal trasformismo dei post comunisti e dei post fascisti.

Il principale protagonista, Silvio Berlusconi che ha sempre manifestato il più totale disprezzo per la politica e i politici è stato un propagandista antesignano ed emerito dell’antipolitica. Come la Lega, come la sinistra giustizialista con i loro rimedi e le loro parole d’ordine super semplici, banali, violente, ingiuriose. Parallelamente è partita la rincorsa alle scorciatoie, ora tecnocratiche – professori e grands commis dello Stato senza mandato popolare come Ciampi (il migliore nel genere), Dini e infine Monti; ora populiste come Berlusconi, Bossi, Grillo, o, ancora, giustizialiste come grossa parte del PD, Di Pietro, Ingroia e ancora Grillo. Il fondamento della democrazia – il popolo, la base, che elegge liberamente il vertice – è stato sovvertito, rovesciato. Da quasi dieci anni abbiamo un parlamento di rappresentanti del popolo nominati dai capi e non scelti dai cittadini.

E siccome i capi e i capetti badano più alla fedeltà dei nominati che alla loro qualità e competenza il Parlamento si è affollato di mezze figure, di uomini e donne del capo, di anonimi gregari, di dilettanti allo sbaraglio capaci di tutto e buoni a nulla.

In questo contesto hanno prosperato arrivisti e urlatori, guappi e ciarlatani di tutte le risme, per non dire di tanti ignari ragazzi senza educazione, senza esperienza e, di conseguenza, senza idee. Ha ragione, sul Corriere della sera, Ernesto Galli della Loggia ed è strano che Napolitano non se ne sia accorto.

L’antipolitica in Italia non è solo all’opposizione: da più di vent’anni questa “patologia eversiva” è installata anche al potere, è consustanziale alla Seconda Repubblica, è la sua fonte battesimale.

Articolo pubblicato su www.daringtodo.com

(2/1/2015)

 

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