La damnatio memoriae degli ex Pci-Pds-DS
Una sconfitta culturale, prima
che politica
Una
ricostruzione apparsa oggi sul Corriere della Sera a firma Maria Teresa Meli mi
ha fatto pensare. Il succo dell’articolo è questo: le rivalità tra ex leader del
Pci-Pds-DS-Pd si sono elise da sole nella corsa al Quirinale. Vero, e anche
abbastanza evidente. Ne deriva una marginalità di fatto: i protagonisti di
quella storia non hanno in mano più nulla. Ne’ il Quirinale, ne’ palazzo Chigi,
nè le presidenze di Camera e Senato. Non succedeva, in effetti, da vent’anni.
Non interessa qui discutere come è stato possibile. Materia quotidiana per noi
retroscenisti di Palazzo.
Bersani, che ha rinunciato a proporre se stesso, chiudendo con Renzi su
Mattarella, neppure è stato invitato al ricevimento al Quirinale. “Presidente
del Consiglio incaricato è scaricato” ha detto di se, con una considerevole dose
di autoironia. D’Alema, che puntava su Amato, non è neppure più parlamentare e,
come ama dire con disprezzo per le vicende altrui, si occupa di Europa di Pse
tramite le sue fondazioni. Veltroni, altro sconfitto nella corsa per il Colle,
si occupa di film, libri, cultura. Fassino fa il sindaco e si limita a schiumare
di rabbia per essere stato tagliato fuori. Di Occhetto si sono perse le tracce e
nessuno ne sente la mancanza. La sinistra dc, invece, nelle sue diverse versioni
che la videro protagonista ai tempi della Balena Bianca (cattolico-democratica,
di Base, morotei, sindacale) non ha solo conquistato il Colle, con Mattarella, e
palazzo Chigi, con un epigono sia pur lontano e nuovista, oltre che nuovo, della
sua storia, Matteo Renzi, ma ha sempre coltivato storia e memoria di sè,
ritrovandosi unita, sia pure con la discrezione tipica dei paludati ex-Dc, e
rinfrancata grazie alla convergenza di anime diverse su un nome solo. Mattarella,
appunto.
Ex
andreottiani come Fioroni, ex forlaniani come Guerini, ex cattolici democratici
ed esponenti dell’ultimo Ppi come Castagnetti, Bianco, e altri, ex sindacalisti
neocentristi come Marini e D’Antoni, ex rinnovatori poi fondatori della Rete
come Leoluca Orlando, ex diccì di sinistra come Franceschini hanno lavorato con
un solo obiettivo , portare Mattarella al Colle. E ci sono riusciti alla
perfezione. Senza invidie, gelosie, veti reciproci. Coltivando soprattutto
l’antico vizio della memoria.
Cosa resta, invece, della storia del Pci e della sinistra italiana, negli
epigoni del Pci-Pds-DS poi confluiti nel Pd? Poco o nulla. Eppure, un tempo, non
era così. Togliatti inserisce la lezione di Gramsci nel corpus dello storicismo
crociano e liberale italiano, smussando ne gli angoli del pensiero e la portata
rivoluzionaria. Amendola, il ‘destro’ Amendola, recupera la storia e il
patrimonio del socialismo delle origini e degli albori del movimento operaio per
proporre (già negli anni Sessanta!) il “partito unico della classe operaia”
cercando, pur senza successo, di agganciare il Psi. Ingrao, negli anni Settanta,
propone in un famoso saggio, Masse e potere, l’esaltazione dell’ingresso
salvifico delle masse proletarie nelle architetture del sistema istituzionale,
cercando il raccordo con le forme di protesta e di ribellione che animarono gli
anni ’70. Persino Craxi riscopre, in funzione anticomunista, il pensiero laico,
libertario e radicaleggiante di Proudhon contro Marx e i marxisti. Le attività
di istituti come il Gramsci o di scuole di politica come Frattocchie, prima di
chiudere, negli anni Novanta, continuano a produrre e sfornare ricerche,
analisi,dossier, intelligenza politica collettiva. Persino Occhetto, per
giustificare la nascita del suo Pds, propone l’ardito collegamento alla
Rivoluzione francese e al suo radicalismo giacobino in funzione anti-Urss e
anti-mummificazione del pensiero socialista classico. Dagli anni Novanta in poi,
è il nulla. Quando nascono i DS, l’approdo a esso di componenti minori
(socialista, cattolico sociale, repubblicana) è una pura operazione di ceti
dirigenti.
Quando nasce il Pd, Veltroni getta nel calderone riferimenti tanto larghi e
vasti (dai fratelli Kennedy a don Primo Mazzolari…) quanto improbabili e
incoerenti tra loro. La tradizione del Pci, anche solo la trasmissione della sua
memoria, viene azzerata, cancellata a tal punto che neppure si può più nominare.
Viene ‘salvato’ solo Enrico Berlinguer, ma del pensiero di Berlinguer si prende
solo la figurina della questione morale, pure importante, rimuovendo tutta la
sua carica di esploratore di nuove frontiere (l’eurocomunismo, il compromesso
storico, l’alternativa democratica). La destra ex amendoliana che assurge al
Quirinale con Napolitano ne recupera l’afflato europeista, ma ne dimentica la
carica sociale. Bersani, pur dicendo di voler rimettere mano alla ‘Ditta’, non
opera alcun radicamento del partito nei luoghi del conflitto, a partire da
quelli sociali e sindacali, lasciando avvizzire sezioni e gruppi dirigenti
locali, memoria storica e identità culturali e politiche. Poi arriva Renzi, e
quello che sappiamo.
Una
sconfitta, quella del gruppo dirigente che ha vissuto la fine del Pci (e, cioé,
dei vari D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani) che diventa presto pura perdita di
posti di potere e vani tentativi di pallido riposizionamento tattico che si
riducono a battaglie di retroguardia. Che fare?, dunque, direbbe Lenin. Nulla,
ormai. La battaglia culturale, quella che gramscianamente consisteva nella
conquista delle “casamatte” del Potere, che puntava a innervare la tradizione
socialista verso equilibri sociali ed economici più avanzati, che vedeva nella
storia e nella memoria elementi imprescindibili e antecedenti ogni possibile
battaglia politica, e’ persa. Restano piccole posizioni di potere, tattiche
correntizie e posizionamenti politicisti che permetteranno, forse, a pezzi della
sinistra del PCI-PDs-DS che furono di sopravvivere a se stessi, ma la battaglia
per l’egemonia nell’album sinistra – o in ciò che si chiama adesso – attuale è
persa. In modo definitivo, temo.
Articolo tratto da ettorecolombo.com pubblicato il 4 febbraio 2015
(7/2/2015 ) |