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Leo Alati

 

 

 

La Risaia

 

 

La voce dei riformisti vercellesi

Culture locali e culture localistiche

Quando una cultura locale smette di essere tale, per diventare localistica, ha tradito la sua propria essenza, e, quindi, non ha più ragione di essere. La prima, infatti, è quel meraviglioso ed inestimabile tesoro di micro (e macro) stilemi che non si cristallizzano nel tempo, ma sono alla continua ricerca di dialogo, di contatti, e perché no?, di “contaminazioni” con le altre culture locali, in un continuo processo di crescita concretizzato anche attraverso il confronto aspro. Si potrebbe definire, insomma, una sorta di “conventio ad includendum”, la cui base pregiata si allarga nel tempo, pur mantenendo intatta l’essenza originaria e la peculiarità culturale. Anzi, trovando proprio in essa la forza  per un confronto “alla pari”.

In questo quadro, i rapporti fra culture diverse non possono che dar vita ad un processo di reciproco arricchimento, che, paradossalmente  (ma non troppo), sono l’unica arma di salvezza dall’annichilimento nel calderone della massificazione totale. A livello globale, forse l’esempio più pregnante è rappresentato dalla “pizza”: essa non è soltanto un incidente alimentare, ma ha ormai assunto i connotati di “segno” linguistico che è entrato prepotentemente a far parte degli universi culturali più disparati, superando di gran lunga gli angusti confini della mera “napoletanità” originaria.

Al contrario, la cultura “localistica” si caratterizza per l’arroccamento su posizioni che si vuole, coercitivamente, mantenere cristallizzate. Quindi, escluse da qualsiasi “contaminazione”. Ne consegue che l’unico modo per farlo sta nel rifiuto di qualsiasi confronto: la “purezza” della propria origine deve essere difesa ad ogni costo, magari anche inventandosi di sana pianta un “testo sacro” o un “eroe archetipico”, cui legare i propri adepti e dargli la forza (irrazionale) di opporsi a qualsiasi influsso esterno. Ne scaturisce, allora, la “conventio ad escludendum”, con relativa chiusura dei confini e proclamazione della propria (presunta) superiorità sul mondo esterno.

Contrariamente a quanto molti pensano, questo non è l’unico (e nemmeno il migliore) modo per preservare e perpetuare la cultura locale, in quanto la più logica delle conclusioni per questi tipi di conflitti risiede nella rimessa in circolo della perniciosissima idea di “protezionismo”, tanto culturale quanto economico.

E non è certamente un caso che il fenomeno più dirompente di  “conventio ad escludendum” di questi anni sull’italico territorio sia rappresentato dalla Lega Nord e dai suoi più stretti addentellati, e che uno dei suoi più acclamati sacerdoti sia quel  B…zio (chiedo scusa ai lettori, ma la pronuncia completa di quel nome mi induce sempre serie crisi di stabilità fisica) “campione” di difesa della purezza della razza!

Il tragico è che la trappola da costoro tesa è, purtroppo, parecchio intrigante, e tesa a sollecitare i più bassi istinti di vendetta e rivalsa che, specie nel nostro sud così sanguigno e passionale (e, quindi, anche fortemente irrazionale) sono facilmente infiammabili.

Cosicché, il contraltare più immediato al leghismo nordista finisce con l’essere rappresentato dalle varie “Leghe Sud”, che altro non sono se non la speculare identificazione della tanto odiata (a parole, non nei fatti) tracotanza leghista, e che sfocia, per esempio, nei recenti appelli a “comprare meridionale”, attraverso il boicottaggio di prodotti, servizi e quant’altro, provenienti dal Nord. Anche il meno ferrato in economia si renderebbe immediatamente conto che in un mercato globalizzato la frantumazione e la contestuale duplicazione delle produzioni di qualsiasi genere potrebbero sopravvivere (non certo a lungo!) solo con l’iniezione di massicce dosi di protezionismo (semmai, una battaglia da sostenere potrebbe essere quella basata sulla diversificazione: quella sì che potrebbe servire a tutelare le identità culturali!).

A nulla, evidentemente, valgono i numerosissimi insegnamenti della Storia sul come i protezionismi altro non siano sempre stati che tentativi di affermazione di interessi oligarchici a danno dei più deboli ed a prò dei più furbi!

Personalmente, da una vita rifiuto di acquistare (e consumare) il panettone a Natale, preferendo di gran lunga le “sammartine” (i “petrali” reggini), ma non posso certo negare che il panettone sia squisito, gustandolo, infatti, a festività concluse; così come la passione per le sonorità meridionali non è giusto che mi impedisca di gustare fino in fondo, ad esempio,  i ritmi rock che, certo, meridionali non sono; o che l’apprezzamento per la letteratura dei Pirandello, dei La Cava, degli Alvaro degli Sciascia e perfino di Ciullo d’Alcamo mi induca a ricusare l’antica e mai sopita passione per gli scritti pasoliniani o a bruciare la Divina Commedia sull’altare della difesa della cultura meridionale!

La resistenza ai tentativi di colonizzazione culturale, per quanto mi riguarda, è consentita solo se accompagnata dal dovuto rispetto verso le culture diverse dalla mia; né mi convince l’idea di realizzare panettoni al Sud per avere, in tal modo l’aggio di “non comprare settentrionale”…

Lasciamo, per favore, agli altri l’idiozia di ricusare il sommo  Virgilio sol perché, da mantovano di nascita, ebbe il “gran torto” di lasciarsi “rapuere” dai Calabri (che poi erano i Pugliesi: ma questo non ditelo a quel povero sindaco: non sarebbe in grado nemmeno di comprendere la differenza)!

 

Pino Macrì

2 marzo 2012

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