Responsabile

Leo Alati

Se la politica è il capro espiatorio

Nel 1985 passa per la prima volta in tv lo spot dell’amaro Ramazzotti destinato a diventare il simbolo di un’epoca: «Milano da bere». Riguardatelo su YouTube, se vi capita: Milano rinasce ogni mattina, pulsa come un cuore; Milano è positiva, ottimista, efficiente; Milano è da vivere, sognare e godere. Sono passati trent’anni esatti, e a rivedere quello spot il cuore non pulsa ma si stringe: che cos’è successo all’Italia? Come abbiamo fatto a cadere da quello stato d’animo di esaltazione a questo di depressione? Sì, certo, lo so bene che l’ottimismo degli Anni Ottanta già celava molte delle cause del declino successivo. E so pure che il nostro avvilimento odierno scaturisce da dati economici assai «duri»: inefficienza, corruzione, stagnazione. Mi chiedo però se non ci sia anche qualcos’altro. Qualcosa che ha a che fare col nostro modo di ragionare, più che con quello di lavorare.  

Uno dei difetti principali dell’«italiano medio», si dice sempre, è la tendenza a scaricare le responsabilità, ossia la convinzione che del conto debba sempre occuparsi qualcun altro. «Qui nessuno paga le tasse!», denuncia l’artigiano mentre ripone in un cassetto i contanti incassati al nero. «Qui nessuno rispetta le regole!», inveisce la signora parcheggiando sul posto riservato ai disabili, forte del pass d’un vecchio zio che non esce di casa da un lustro. 

Bene, la mia ipotesi è la seguente: non l’unica causa, certo, ma almeno una delle cause del declino italiano consiste nel fatto che, a partire soprattutto da Tangentopoli, la politica non solo non ha contrastato questa propensione – per così dire – all’auto-deresponsabilizzazione, ma l’ha potentemente alimentata.  

Perché a partire da Tangentopoli? Perché gli anni di Tangentopoli hanno visto ergersi in Italia una gigantesca «macchina da capri espiatori» a cerchi concentrici – un marchingegno diabolico come quello descritto da Kafka in uno dei suoi racconti più raggelanti, «Nella colonia penale». Nel 1992-93 la società civile ha scaricato sul ceto politico ogni responsabilità per gli errori commessi nei decenni precedenti. L’anello esterno del ceto politico – leghisti e missini – a sua volta ha scaricato quegli errori sui partiti del cosiddetto «arco costituzionale».  

L’anello esterno dell’arco costituzionale, i post-comunisti, sulle forze di governo. Le forze di governo sul Partito socialista. E il Partito socialista sull’arci-capro espiatorio, Bettino Craxi, conficcato in fondo all’imbuto come Lucifero nell’inferno dantesco.  

Ma perché, si dirà, le responsabilità erano distribuite equamente fra quei soggetti? Tutti colpevoli, nessun colpevole? No, naturalmente. Ma cercar di capire come sono ripartite le colpe è ben diverso che metterle tutte in groppa a un capro espiatorio, ammesso pure (e francamente in questo caso non concesso) che quello porti davvero responsabilità molto maggiori di chiunque altro. Come ogni capro espiatorio che si rispetti, per altro, Craxi era allora uno dei pochi che dicevano la verità. Si rileggano i suoi discorsi alla Camera del 3 luglio 1992 e 29 aprile 1993: il funzionamento gravemente patologico del finanziamento ai partiti era un problema politico, strettamente dipendente dal funzionamento anch’esso patologico di una repubblica cresciuta all’ombra della Guerra Fredda. Nel momento in cui la Guerra Fredda terminava, quindi, i conti andavano fatti per via politica, e non giudiziaria. 

Così non è stato, e la repubblica bipolare – figlia di quella macchina kafkiana per la produzione concentrica di capri espiatori – è nata storta. Berlusconi si è presentato come il frutto delle virtù immacolate della società civile, e in particolare del ceto imprenditoriale, e si è alleato col cerchio più esterno del vecchio ceto politico, Lega e Msi. Così facendo, ha sgravato di ogni responsabilità non soltanto se stesso, ma tutti quelli che stavano con lui, e invece di ripensare e ricostruire la politica l’ha delegittimata, «invadendola» con logiche e personale d’azienda. 

I post-comunisti, come s’è detto, avevano già dal 1992 gettato ogni colpa sui partiti di governo e soprattutto sui socialisti craxiani, considerati l’incarnazione dello spirito deteriore degli Anni Ottanta – come se quel decennio non avesse alcun rapporto coi decenni precedenti, ma fosse il frutto d’una specie di invasione barbarica. Nel 1994 è stato loro sufficiente sostituire Craxi con Berlusconi. Hanno così potuto perpetuare il mito berlingueriano della propria diversità morale, usandolo per schermare ogni mancanza e responsabilità, e invece di ripensare e ricostruire la politica l’hanno subordinata alle logiche etiche e giudiziarie. Non solo. Il moralismo post-comunista condannava l’«italiano medio» anche perché lo accusava di attribuire ad altri le proprie colpe. Era quindi il colmo del paradosso che cadesse pure lui vittima dello stesso vizio, elevando Berlusconi a capro espiatorio universale e consentendo così a elettori, intellettuali e politici di mondarsi da ogni colpa a buon mercato, semplicemente parlando e votando contro il centrodestra. 

La repubblica presente è nata e vissuta sotto la maledizione del fantasma della repubblica passata. Rifiutandosi di fare i conti con quel fantasma e buttandoselo addosso l’una all’altra, le forze politiche degli ultimi vent’anni si sono dimostrate incapaci di farsi carico dei propri errori e dei difetti del Paese. Possiamo meravigliarci allora che gli italiani abbiano reagito delegittimando in blocco la politica, dandosi all’indignazione cosmica e alle lamentazioni prive di costrutto, e respingendo anch’essi qualsiasi addebito?

Articolo di Giovanni Orsina pubblicato su La Stampa il 17/05/2015

 

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