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Leo Alati

Canale Cavour, l’Italia moderna made in Piemonte

Compie 150 anni la grande infrastruttura idraulica nata dalla visione lungimirante dello statista che trasformò l’agricoltura e l’industria della zona

 

Un’immagine della costruzione della tomba-sifone (canale subcqueo) del Canale Cavour sotto il torrente Elvo. Durante i lavori la popolazione del posto veniva a farsi fotografare nel cantiere

Ai primi del 1866, a soli tre anni dall’inizio dei lavori, il Canale Cavour era terminato. Una delle più importanti infrastrutture idrauliche, progettata più di vent’anni prima e fortemente voluta da Cavour negli anni che lo videro protagonista della politica piemontese, veniva finalmente inserita nel quadro di una primordiale modernità italiana. Lungo poco meno di 86 chilometri, articolato in 37 rettilinei e 36 curve, con 76 chilometri in scavo e oltre 6 in rilievo, largo mediamente una ventina di metri, il canale aveva origine dal Po a Chivasso, attraversava la piana vercellese e quindi quella novarese, fino a sboccare nel Ticino.  

 

Per fare quel percorso, il canale aveva richiesto la costruzione di 101 ponti, 210 sifoni e 62 ponti-canale. Era l’ossatura portante di una rete di corsi minori che dovevano portare acque nutrienti a un comprensorio di 300.000 ettari. In particolare, quelle campagne del Novarese e della Lomellina, tra Sesia, Ticino e Po, ancora in gran parte prive di irrigazione, ne traevano grande giovamento. Così come tutte le macchine che producevano forza motrice tramite la forza delle acque. La costruzione del canale andava a beneficio sia dell’agricoltura, sia della industria del Piemonte nord-orientale.  

Scienziati e militari  

L’opera era evidentemente il frutto di due culture: una economica e l’altra ingegneristica. Entrambe avevano trovato in Cavour la visione lungimirante dell’uomo di Stato. Ed entrambe avevano avuto incubazione in quel formidabile gruppo di scienziati e militari che erano stati all’origine dell’Accademia delle Scienze di Torino. Era in quel giro d’anni di fine Settecento che il grande Francesco Michelotti aveva lasciato i suoi Sperimenti idraulici alle generazioni successive di architetti e ingegneri del territorio. In quel cenacolo protetto dai Savoia era scaturita la fiammella che portava anche in Piemonte l’idea che una cultura scientifica e tecnologica sarebbe stata di grande aiuto alla razionalizzazione della produzione agricola e industriale, e dunque un elemento di progresso economico e civile. Cavour aveva raccolto quel testimone, prima come giovane ufficiale del Genio, arma tecnica per eccellenza; e poi viaggiando ripetutamente in Francia e Inghilterra allo scopo di conoscere modalità e tecniche per incrementare i raccolti e i relativi proventi. 

 

Cavour era un grande proprietario terriero, aveva interessi personali che difendeva tenacemente. Non era certo un rivoluzionario; ma era uomo colto, di vaste letture. Sapeva bene che il Piemonte, non già rispetto al resto d’Italia, ma rispetto all’Europa, era attardato. Era dunque naturale che la sua cultura imprenditoriale, maturata principalmente nella tenuta di Leri, diventasse decisiva quando nel 1848 entrò come deputato nel parlamento subalpino, e di lì a poco, nel 1850, venne nominato ministro dell’Agricoltura e del Commercio sotto la presidenza di D’Azeglio. Allora, le letture di Bentham e di Rousseau, i sopralluoghi a Bordeaux, nel Delfinato e in Franca Contea, e ancora nel Cheshire, nel Norfolk e nel Worcestershire, e gli approfondimenti degli studi agronomici di Chaptal, Davy, Liebig e Johnston diventavano un bagaglio di conoscenze che potevano essere messe al servizio dello Stato.  

 

Il Canale Cavour ne fu un esempio: progettato fin dagli Anni 40 dall’agrimensore vercellese Francesco Rossi, venne riaffidato all’ingegnere Carlo Noè nel 1852, quando Cavour assunse la presidenza del Consiglio. Non fu semplice la messa a punto di questa impresa tecnica: il conte non ne avrebbe viste né la posa della prima pietra, nel 1863, né la fine. Ma è a lui che se ne deve il sostegno politico. Ed è a lui che riporta una politica di incremento delle infrastrutture che consegnò il Piemonte all’appuntamento con l’unificazione nazionale largamente in vantaggio anche su altri territori di grande cultura tecnica ed economica come il Lombardo-Veneto. 

 

Gli occhi rivolti all’Europa  

La rete di strade, di collegamenti in direzione di Genova e di Milano, della Svizzera e della Francia, era nettamente la più fitta. I chilometri di ferrovia erano superiori a quelli di ogni altra regione italiana e cedevano il passo soltanto alle reti francesi, inglesi e tedesche. Il Regno delle Due Sicilie, che vantava il primato della Napoli-Portici, risalente al 1839, consegnava nel 1861 all’Italia 120 chilometri di binari; il Piemonte di Cavour 800. A seguire la Lombardia e la Toscana, rispettivamente con 500 e 300. Con una precisazione, di non poco conto: la maggior parte delle opere pubbliche, soprattutto al Sud, erano frutto di investimenti stranieri e i capitali erano privati. 

 

Cavour aveva impegnato il denaro pubblico per quelle grandi opere e aveva irrobustito il territorio piemontese e lo Stato di beni demaniali. Anche in questa prospettiva, profondamente influente sul lungo periodo, per comprendere come una politica liberista potesse tuttavia conciliarsi con una profonda cultura dello Stato, vanno interpretati i chilometri d’acqua incanalati fra Chivasso e Galliate. In questa visione della modernità vanno ricondotti i 14.000 operai impiegati giornalmente per la costruzione del canale; i 120 milioni di mattoni; gli 8.000 metri cubi di pietra da taglio; le 50.000 tonnellate di calce; e anche i 3 milioni mensili per sostenere i costi dell’impresa.  

Tutto questo era anche cultura: quella che avrebbe portato il Piemonte ad avere il minor tasso di analfabetismo rispetto a ogni altra regione italiana. Era una competizione con gli occhi già rivolti all’Europa.  

Articolo di Walter Barberis pubblicato su La Stampa il 23 febbraio 2016

((9/4/2016)

 

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