Responsabile

Leo Alati

Non è Halloween

di  Emma Pretti

Qui non è mai Halloween – lo è sempre. Fa parte del nostro elemento. Ogni temporale porta con sé un sabba di streghe. Il sole rimpicciolisce e sbianca – ostinato irradia luce pallida dietro lo schermo di una nuvola opalescente. I suoi lembi trascinano un’armata liscia e compatta dai grigiori plumbei – soffici cannoniere si adagiano sui tetti: vento, acqua e grandine. L’oscurità delle loro gonne si scatena. Giocano terribili scherzi, i più assurdi e incredibili: gorgheggiano dalle grondaie, sparano sui passanti ignari, incauti o elettrizzati all’idea di un’aspra euforia. Distruggono viali come prove di forza – sollevano in alto portafogli e li scuotono, li svuotano – rovinano le famiglie imbucate in casa a finestre chiuse, davanti al televisore che trasmette il resoconto completo della tregenda. Non c’è da uscire – non si ricaverebbe niente. Qui non arriva Halloween, lo è sempre, senza luminaria e senza festa. I nostri mostri non sono maschere. Se il campanello suona è per qualche ragazzino annoiato che non può trattenere la mano in tasca, schiaccia il pulsante e scappa via ridacchiandosela un po’ dietro la siepe. Più spesso sbirciamo circospetti fuori dalla finestra e scorgiamo i Testimoni con i loro abiti tristi, ben lavati e stirati, fuori moda per qualsiasi moda. Suonano e subito parlano di Dio, degli uomini che sulla terra non si amano, della pace nel mondo, del mondo che verrà nella maniera precisa che solo loro conoscono. Gli anziani soli, i sempliciotti si confondono e provano a discorrere, ma per il resto non c’è da rispondere un granché; rimpiangi di non essere uscito appena dieci minuti prima, con qualsiasi tempo: sole, diluvio, trenta centimetri di neve – Qui non è Halloween, non si può scegliere dolcetto o scherzetto: se l’umore è burbero lo scherzetto ti farebbe un gran bene – un gran bene arrabbiarsi un po’. L’orologio della chiesa suona la mezzora con dieci minuti di ritardo. Per strada passa un’automobile ogni quarto d’ora; quante auto in un’ora e mezza tenendo conto che l’orologio rallenta con la chiara intenzione di fermarsi?  – La soluzione del quesito sta nel fatto che i negozi chiudono uno dopo l’altro ogni quattro mesi. Sopra la maniglia delle seracinesche abbassate si fermano i piccioni, tubano, saltano su e giù dal ferro, attraversano fino all’arcata dei portici, finiscono per appollaiarsi negli angoli in attesa di rientrare, verso sera, sotto le tegole dei tetti. Dalle prime ore del mattino e per tutto il pomeriggio intanto fanno i mondani, comunicano a loro modo; parlano di questo abbandono, si raccontano di quando un commercio sano e vivace punteggiava gli angoli del paese e tante piccole realtà laboriose occhieggiavano dalle arcate del centro. Zampettano nello squallore di chiazze d’urina, sudiciume e cartacce raccolte dal vento.

Piogge maligne sbiadiscono le insegne, registri contabili si scompigliano, sventolano i fogli come se qualcuno li prendesse a schiaffi: e tutto si cancella. Alla fine solo i nonni ricordano nomi e rivendite, attività scomparse e andate per sempre. I proprietari spariscono, rimossi in modo misterioso. Se anziani vengono risucchiati nel sottomondo delle Case di Riposo, viaggiatori della sera pronti per l’ultimo imbarco; al crepuscolo si radunano compunti nel piccolo giardino di pini neri e attendono che il convoglio blindato rallenti e il controllore cieco pronunci un nome o due – salgono senza salutare nessuno. Al contrario i giovani non si rassegnano – non gli è permesso – ma rimpiccioliscono – con pratiche alchemiche si assottigliano dietro le casse, tra gli scaffali di vasti centri commerciali dove scompaiono proprio sotto gli occhi di un’interminabile coda di clienti.

Le loro carni risultano trasparenti, le sembianze monotone, il loro codice barre riconoscibile solo dai parenti stretti. Parcheggi vuoti – le automobili passano sempre più rade e non si fermano. Ecco ne arriva una proprio adesso. Percorre la strada  per uscirne, non accenna a fermarsi. Vorrei alzarmi e andare alla finestra, ma non ci vado, mi appoggio allo schienale della sedia e la seguo con l’orecchio: viaggia lentamente, con indolenza, dopo pochi secondi il suo motore monotono mi annoia e l’abbandono. Si è sentito appena il fruscio delle gomme sull’asfalto.

Sono ben diversi i passaggi nel cuore della notte. Nell’assoluta immobilità delle vie a volte la macchina sbuca da una distanza imprecisata, arriva con folle accelerazione, come se volesse scorticare l’asfalto; risucchia la luce dei lampioni, trapassa il buio – un trapano inesorabile contro ogni candida incolpevole forma – straccia la coscienza assopita e sbalza sui sogni profondi. Un pazzo suicida, banditi che si rincorrono, fuggono per sparire dentro l’oscurità diventata improvvisamente leggera fino a una trasparenza insidiosa e famelica. Chi ha sofferto il risveglio resta come aggredito e segue i vaghi segmenti della traiettoria, sassi di un sentiero gettati a casaccio sulla linea di un destino misterioso. Oggi nel tardo pomeriggio la nebbia ha accerchiato la voce dei corvi trasportandola ovunque. Adesso la sera piovosa getta questa casa in fondo alla strada davanti a un lampione guasto. Aleggia il buio a macchie. Soffi di buio mischiati a veli di nebbia bassa arrivano dagli spazi tra una casa e l’altra e attraversano la via. Dentro la casa, dentro la luce gialla della casa, seduta al tavolo ci sono io che fisso il suo piano di legno. Il momento migliore della giornata è stato due ore fa, quando ho cominciato a preparare una torta: prima, a occhi aperti, un breve sogno di sostanze lievi, poi le mani dentro la farina, mentre il forno scalda e tutto è immerso nell’aspettativa, tutto ancora da impastare.

Bene, e poi? E poi cosa? Mentre si avvicina l’ora di cena la torta che ti profuma davanti è troppo cotta, asciugata,, bruciacchiata sul fondo e indigesta. Proprio così sembrano i piccoli paesi: impasti lasciati troppo nel forno, grinzosi e accartocciati. L’unico loro alibi pare sia l’aria buona – ma è un luogo comune. Sono centinaia e si presentano tutti allo stesso modo, tagliati fuori da una circonvallazione che si srotola a nastro in mezzo alla campagna, senza una fisionomia precisa, come sfregiati nell’anima: una manciata di tetti e brutte facciate rimodernate con infissi di alluminio anodizzato, cortili umidi in disordine che quasi si accavallano per dare spunto ai litigi – e in lontananza torrioni di centrali elettriche che dominano nella piana. Al tramonto, fuori dalle vie anguste, il cielo apre un’ala strepitosa. Solo la chiesa col campanile sembra ancora proteggerli sotto uno sguardo benedicente, ma alle funzioni la parrocchia è semivuota mentre dentro le case balugina l’occhio esaltato di una stufa che divora sacchi di pellet  e sortilegi di suoceri e cognate: dietro le tende i muri incandescenti imbrattati di rabbie domestiche.

Anatemi chiudono le palpebre. Tutto conduce al mestiere del sonno. Posti che fan sfiga solo a nominarli. I loro abitanti sono tutti di una razza particolare, incline alle stravaganze, un bell’ammasso di teste quadre e bislacche – Perché c’è spazio qui, trovano spazio tutte le gradazioni delle stralune, da quelle sorpassate alle più moderne. Chi passa a quest’ora conta i passi, l’immobilità della strada paralizza gli orologi e apre la sfilata dei più miserabili tra i mostri, quelli che riempiono di scartoffie le scrivanie degli assistenti sociali e gettano le famiglie nella disperazione. Ecco perché qui non è Halloween  ma una sera qualunque. Sotto le finestre di vecchie che si preparano il caffelatte per cena o una minestra leggera passa Paperino. Ha piedi piatti, lunghi e forse palmati – brontola. E’ così lui, un bel po’ scemo; la sua testa è indietro, proprio indietro.

Passa davanti a casa mia tutti i giorni per andarsi a bere i soldi che la madre gli mette in tasca. Puntuale, ha degli orari da fabbrica . Va giù alle otto per tornare a mezzogiorno, poi ancora le tre e indietro alle sette. Il nome gli calza bene perché il naso, che spinge verso il mento, gli sputa fuori le labbra a becco di papera. Se la ciucca è buona passa cantando con la saliva che gli schiuma in bocca, se no borbotta e biascica da solo. Non saluta nessuno e non devi mai guardarlo negli occhi, altrimenti comincerà a chiederti soldi tutte le volte che lo incontri. Si può parlare di uno così? che ferma e piscia dappertutto, dove capita che gli va, e prima si  passa una mano sotto la giacca per sfrignarsi la patta come un bambino che si accorge che gli scappa. Te lo fa davanti, lo fa che si veda, poi comincia a seguirti e questo mette un po’ agitazione; affretti il passo, ti sbrighi a tirar fuori le chiavi, la chiave non entra perché è un doppione che non ha mai funzionato al primo colpo; nella mano c’è più strizza che impegno; il cancello si apre quando gli mancano solo tre passi. Chiudi, e lui si gira a guardarti – chissà se con un motivo.

Ha un animo inconsapevole e scuro come l’ asfalto bagnato; la sua incoscienza si dibatte dentro una tristezza micragnosa e raspante. C’è una madre anche qui, rassegnata; una madre vuota dentro una cucina vuota, un corridoio, la scala, il terrazzo: di sicuro ogni tanto le è venuta voglia di saltare giù. Gli altri due figli hanno famiglia e non saprei dire dove sono, se l’aiutano. La rassegnazione equivale a uno sgombero, fa spazio; e in questo spazio che si fa? si finge. Desideriamo con l’anima e col corpo, con tutta la rabbia di questo desiderio, ma ci sforziamo di non dirlo, buttiamo sopra un qualcosa per spegnerlo, una coperta indurita dal ghiaccio, e dopo un po’ ci rendiamo conto che anche lei riscalda. Potrebbe magari provare a piangere, ma i singhiozzi suonerebbero nel rimbombo; niente più del miagolio disperato di un gatto chiuso dentro un capannone vuoto.

Ve ne descrivo un altro, il mulatto – che non è di qui. E’ spuntato un bel giorno da chissà dove; ha l’aria sporca e puzza. Sfila avanti e indietro lungo i portici umidi, coi lastroni sconnessi e le arcate buie, il passo lungo e l’aria feroce della tigre che misura la gabbia. Gli stanno tutti alla larga. A volte si fa accendere una sigaretta; punta le ragazze se gli va; sempre da ingrugnato. Un giorno che non lo hanno visto tornare a casa, sono andati a cercarlo. Passa una settimana e fanno un appello in televisione – Era il caso?

La madre compare in tivù affranta e dà tutte le indicazioni necessarie. Comunque dopo quindici giorni lo segnalano in Spagna. Come ci sia arrivato praticamente senza soldi, va a saperlo. Adesso ce lo ritroviamo di nuovo sul groppone. Personalmente mi muovo sempre a più di dieci metri da lui; emana brutalità. Se punta qualcuno, l’altro si sposta; la fila al supermercato non la fa mai. Si, poi ci sarebbe un Panzani. Famiglia numerosa, i Panzani. Son venuti su come le bestioline. Quello che dico io non è proprio che non ci sia con la testa, fa il manovale, ma è brutto, d’un brutto marchiato da Dio. Una donna non lo vorrebbe neanche per prenderlo in giro, o peggio, per pulirsi le scarpe sopra le sue mani. Un suo ruolo nell’universo però ce l’ha: quando ti senti giù, puoi sempre girarti a guardarlo per capire subito che, tutto sommato, non te la passi poi così male.

Abbiamo poi il nanerottolo che saluta tutti e non capisci cosa dice, ma ha una certa astuzia ed è riuscito a fare dell’assistenza pubblica il suo quartier generale. Quando in piazza il mercato sbaracca, aiuta gli ambulanti a portar via le cassette di frutta vuote gettandole nell’immondizia. In questo modo rimedia una borsata di frutta e ortaggi. A sbarcare il lunario ci sa fare. Un tizio dall’aspetto innocuo è tornato a stabilirsi nella sua vecchia casa. Sparito e riapparso dopo anni. Compare al bar cercando di vendere racconti improbabili sui suoi anni nascosti. Ma per tutti è stato subito chiaro che aveva fatto lo zio.

Inchiodato da un fattaccio apparso alcuni anni addietro sui trafiletti dei giornali locali. Qualcuno del bar è andato a ripescarli, tanto per rinfrescare la memoria ad amici e conoscenti e fargli intorno terra bruciata. Se fai lo zio  c’è un satana dentro di te che non riesci a tener a bada. Capelli unti, abiti che emanano uno sgradevole afrore, la voce bassa e carezzevole con la quale cerca di darsi contegno e addirittura una certa importanza; ambiguo e stucchevole. Nelle ore del buio immobile, le altalene oscillano lentamente, cigolando sotto gli alberi del giardinetto vicino al campanile: è lui che passeggia e le sfiora per ascoltare la voce stridula dei tiranti. Si abbandona sul sedile lasciandosi cullare, e in cuor suo canta una ninna nanna, ripete una filastrocca, freme per un’immagine turpe che lo inebria e stordisce fin quasi all’orgasmo.

Un alito freddo sopra la cima degli alberi e la nebbia si dirada scoprendo il cielo; appare la luna attraverso una fulva criniera di nuvole arrossate dai lampioni, come fosse un occhio di leone. La volta purpurea della notte si mostra trapuntata di stelle; quegli occhi tremuli accendono immagini di un passato che gli dà la vertigine. I ragazzini giocavano con lui, quelle due famiglie si fidavano. Sapeva far giocare i ragazzini con voce suadente – parole di convincimento non gli mancavano mai. Sempre molto credibile, chiacchierava con loro di tutto, spiegava tutte quelle loro curiosità ancora indefinite – gli esempi non mancavano. I bambini giocavano, si toccavano – lui toccava i bambini, si sentiva fremere, mancare e nello stesso tempo ne diventava il padrone…

Il campanile suona la mezzanotte e a ogni colpo sembra che la notte tremi. Guglielmo giura che un giorno o l’altro lo ucciderà. Guglielmo ha un braccio appassito. Spesso mi chiedo come abbia potuto fare il panettiere per tutto questo tempo perché fisicamente non è normale, ha una spalla molto più scesa dell’altra a cui si attacca un lungo braccio pendulo e lievemente storto (ma forse sembra lungo perché la spalla è scesa), e sul fondo si completa con una mano anchilosata: due dita rivolte all’ insù che non riesce a piegare, se no si spezzerebbero, come le foglie quando si accartocciano. Nonostante tutto il braccio si muove e la mano fa quel che può. Lo ha sempre fatto fin quasi all’età della pensione  anticipata. Ma non è finita: sul lato destro, in aggiunta al braccio e alla spalla, trascina un po’ la gamba con il piede che svirgola in fuori e sembra chiaro che vorrebbe prendere un’altra direzione, ma non ce la fa perché, non so come, la sede dei comandi riesce in qualche modo a controllare tutta quella masserizia. A dispetto di ciò ha lavorato, si è sposato e ha allevato una figlia.

Lui dice che prima o poi l’uccide. Deve solo procurarsi una stringa di cuoio e aspettare che esca dal bar una di queste sere. Appoggiato al muro per fumarsene una, lo saluterà chiamandolo per nome, allo zio  non sembrerà vero che qualcuno gli rivolga per primo la parola e si girerà meravigliato rallentando il passo. Guglielmo staccherà le spalle dal muro come per andargli incontro, alcune frasi sul tempo e l’ultima partita di calcio, poi  lo affiancherà nel tragitto verso casa attraverso i portici bui. Lo zio comincerà uno dei suoi racconti fasulli con tono appiccicoso, mieloso, vomitevole; Guglielmo camminando guarderà dall’alto del suo quasi metro e ottanta la zazzera unta, senza basette, tagliata alla paggio-fernando; sceglierà il punto col lampione guasto, dove lo zio  svolta all’angolo e prende un’altra via: un saluto titubante poi di spalle, un attimo prima di andarsene, il laccio lo aggancia alla gola, stringe, una gamba del panettiere gli blocca le ginocchia mentre con la mano buona incrocia le due cime del filo e le avvita.

Il braccio deforme ha un suo ruolo di rinforzo, stretto attorno al collo schiaccia il pomo d’adamo come per farglielo ingoiare. C’è una furia in quell’intreccio che è disperazione e sollievo per entrambi. Il corpo dello zio  non può contrastare la mole del panettiere, sbatte contro l’angolo del muro, si ferisce resistendo, mena colpi convulsi all’indietro, colpi che vanno a vuoto, strappano l’aria, disegnano le urla che non può permettersi – alla fine tremano quasi imploranti. Grugniti e risucchi, mentre allunga le braccia in avanti con gesti svenevoli come per acchiappar farfalle – e vien meno, la lingua in fondo alla gola, la testa abbandonata all’indietro si appoggia sulla spalla di Guglielmo. Quel contatto è come un morso, una scossa, il panettiere trasale e lo lascia cadere.

Il corpo piomba a terra scomposto e resta un ammasso immobile e scuro. Guglielmo si china per controllare che non ci sia più respiro; poi si alza di scatto, lo scuote con il piede; lo scuote ancora più forte provocando dei piccoli tonfi con le membra inerti. Fugge, corre a balzi trascinando la gamba addormentata come il gobbo di Notre Dame; l’oscurità disciolta dalla luce dei lampioni gli cola addosso e getta a terra ombre lunghe, sotto la fissità cieca e allarmata di porte e finestre chiuse. Il terrore lo squassa con detonazioni violente mentre trascina il corpo deforme ingigantito da un delirio di potenza che lo rende più energico e elastico, finché non inciampa in uno zerbino terroso, rallenta e si ferma nel vano di un portone. Per lo sforzo, scintille gli galleggiano davanti agli occhi. – Era la cosa da fare, per riportare le cose al loro posto, anche se sembra troppo, nessuno l’avrebbe difeso, girano tutti la testa dall’altra parte, non vogliono averci a che fare, non vogliono vederselo attorno: prendere in mano la situazione così non è da tutti. La cosa giusta e fatale: bastava che un randagio passasse per farmi prendere il cagone, e  lo avrei piantato lì senza muovere un dito. Ma non è successo, nessun intralcio dal corso del destino: era scritto: era la cosa giusta da fare –

- Si, si – sussurra scuotendo la testa avanti e indietro per convincersi, mentre nel buio dell’arcata, il senso del giusto non trova neanche un filo di luce per appoggiarsi. La visione si chiude perplessa sopra un taglio d’ombra che allude a una porta apparsa all’improvviso con la scritta: non ci sono regole all’inferno. Può bastare o ne volete altri di esempi ….ce n’è già una bella galleria, non vi pare? Me li vedo intorno, li incontro dappertutto. Potrei costruirci sopra un incubo di struttura gotica. Il gotico si adatta bene alla nostra sensibilità, ha le geometrie tenebrose e sadiche del paese quando scendono le ombre; le stesse parvenze oscure, terrificanti e prive di senso; le voci incomprensibili, assorbite dai muri umidi. Giriamo tutti lì, lungo i portici presi a calci dagli anni e sputazzati da tutto il resto, coi lastroni sgangherati come la schiena di un drago, e gli angoli polverosi e sporchi, appiccicosi d’urina che d’estate da su col caldo. Un paese con le croste. Nel solco dei pilastri s’incastrano dei coriandoli, carnevale dopo carnevale,e lì ci restano, non li spazza via nessuno, non sanno che il loro momento è andato.

Passando da un negozio all’altro, guardando a terra – perché bisogna camminare con gli occhi bassi e stare attenti dove si mettono i piedi – li vedo incollati nelle fessure, come schiacciati. Mi vengono in mente, chissà perché, quei soldati giapponesi naufragati e spersi sopra isole fuori rotta, che neanche sapevano della fine della guerra e continuavano a tenere in ordine quel po’ d’attrezzatura, sbarbarsi ogni tanto e oliare la mitragliatrice. Il mondo viveva altre storie, altre stagioni, e loro niente, fermi lì. Come questi coriandoli. Prima o poi bisognerà dirglielo, a questi coriandoli, che è tutto passato – O non ne vale la pena; tra qualche mese sarà Natale, poi ancora carnevale: arriveranno altri coriandoli, nuovi, a mucchi sopra questi che, mezzi soffocati, si daranno di gomito l’uno con l’altro per dirsi – Hai visto, che abbiamo fatto bene a tener duro?!–

E noi teniamo duro. Flusso di pensieri sgangherato. realtà leggermente assurda, incollata alle ombre. I corvi ci colonizzano. Corvi messaggeri di nebbia. La nebbia accerchia la voce dei corvi.

(14/1/2014)

 

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